Per uscire dalla pandemia e dalla crisi economica

Il Next Generation Eu prevede per l’Italia un ammontare complessivo di circa 248 miliardi di euro metà dei quali sono contributi a fondo perduto e gli altri costituiscono prestiti agevolati da restituire entro il 2026.

Come previsto l’Italia ha presentato entro fine aprile all’Unione Europea Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che prevede fondamentalmente sei ambiti d’intervento per 222 miliardi: la digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; la transizione ecologica per una rivoluzione nel rapporto con l’ambiente, le infrastrutture per la mobilità e lo sviluppo, l’istruzione e la ricerca; l’inclusione e coesione per l’accesso al mondo del lavoro; la salute.

Ad essi sono assegnati rispettivamente 49,2, 68,6, 31,4, 31,9, 22,4, 18,5 miliardi.

Di questi fondi al Sud andrà circa il 40%, ma la distribuzione relativa alle diverse regioni lascia molti nodi e perplessità da sciogliere soprattutto in ordine alle infrastrutture che sembrano tenere al margine alcuni territori.

Sappiamo che l’assegnazione di tali aiuti da parte dell’Unione Europea all’Italia è condizionata da alcune riforme legislative richieste nell’immediato quali quella della giustizia, del fisco, delle pensioni e della pubblica amministrazione.

Il lavoro sembra avviarsi in qualche settore, mentre in altri le difficoltà a fare sintesi tra le diverse posizioni politiche sembrano talora insormontabili.

Quello che c’è da augurarsi è che il Parlamento sappia operare con equità senza guardare ad interessi di parte, ma unicamente al bene della collettività.

Sicuramente per uscire dalla pandemia la vaccinazione sta dando un aiuto notevole anche se per le difficoltà di approvvigionamento dei vaccini tutto procede senza la speditezza dovuta.

L’immunizzazione dell’intera popolazione in ogni caso ha bisogno da parte dei cittadini di comportamenti responsabili che, nelle more della persistenza di diffusione sia pure minima del virus, devono prevedere ancora il distanziamento e l’uso di ogni mezzo di precauzione in grado di tenerci al riparo dal contagio.

È indubbio che un “Certificato verde” soprattutto in alcuni settori come quello della sanità e della scuola non sia più dilazionabile e vada richiesto con ogni urgenza insieme ad una più capillare diffusione della vaccinazione incentivata con tutti i mezzi a disposizione.

Per capire e governare un fenomeno così difficile e pericoloso come quello della pandemia in atto non possiamo che affidare comunicazione e decisioni a chi ha competenza scientifica e politica anche se esse devono essere sempre filtrate da un sistema di confronto che solo può dare sicurezza in un orizzonte di ricerca che spesso ha creato criticità e talora anche ritardi decisionali.

Chi sui provvedimenti del governo per la tutela della popolazione dalla persistenza del Covid nelle sue continue varianti parla di dittatura sanitaria forse ha bisogno di cercarla in altri espedienti posti in essere dal neoliberismo imperante che sono quelli di una continua e pericolosa privatizzazione dei servizi assistenziali che certamente penalizzeranno in particolare le fasce più deboli della cittadinanza.

Esiste quindi il problema impellente di ripensare un sistema sanitario che già prima della pandemia era del tutto inadeguato non solo per le gravi discrepanze tra le regioni, ma per la riduzione di personale e servizi dovuti essenzialmente ad una serie di governi che, cedendo alle logiche del pensiero neoliberista, hanno destrutturato la sanità pubblica deprivandola di prestazioni e tecnologie ma innescando soprattutto un suo processo di privatizzazione che sta creando senza ombra di dubbio enormi difficoltà nella popolazione ed in particolare nelle classi meno abbienti.

Riorganizzare la sanità pubblica significa coprire l’intero territorio dello Stato con servizi efficienti di prevenzione, promozione della salute e cura delle patologie con livelli di assistenza del tutto adeguati.

In questi lunghi mesi di pandemia moltissimi cittadini hanno pagato sulla propria pelle l’inefficienza della sanità e le migliaia di morti ne sono la tragica testimonianza.

Il piano inviato dal governo a Bruxelles per una modifica della sanità territoriale e dei servizi ospedalieri non manca di proposte interessanti che tuttavia appaiono avulse da un progetto complessivo che deve vedere la sanità fondamentalmente come un servizio pubblico gestito non, come si continua a prevedere, dalle regioni ma dallo Stato al fine di dare uniformità di prestazioni su tutto il territorio nazionale pur immaginando relazioni di governo del sistema con le amministrazioni locali di livello regionale e comunale.

Se dovessimo ridurci solo a cambiare nome alle strutture esistenti, commetteremmo l’errore politico più grande che si possa fare rimanendo ingabbiati nelle contraddizioni di sempre.

Per superare le difficoltà presenti occorre anzitutto uscire dall’idea che il sistema sanitario debba occuparsi unicamente della difesa dalle malattie.

La salute non è un bene da curare, ma da costruire e da difendere con un apparato di prevenzione fondato sull’educazione alla creazione delle condizioni di una vita sana ed al raggiungimento di checkup facilmente accessibili per il controllo della funzionalità dei propri organi fisici e mentali.

Non può mancare ovviamente un potenziamento delle professionalità in campo e il miglioramento della ricerca scientifica come di quella tecnologica.

Non possiamo neppure dimenticare che la pandemia ci ha insegnato che esistono problemi sanitari i quali possono essere risolti solo a livello globale e dunque non possono riguardare unicamente la sfera individuale.

È chiaro a tutti come la direzione che le lobbies finanziarie e politiche stanno definendo per la sanità va verso prestazioni sempre più legate ad un privato che, come insegna la recente vicenda di “Gemelli Molise S.P.A”, hanno a cuore più il profitto che la salute dei cittadini ai quali solo una sanità pubblica di qualità può garantire servizi efficienti e gratuiti a tutti.

Su tali questioni nei singoli cittadini e nelle organizzazioni sociali, politiche e religiose la coscienza pubblica appare al momento davvero inesistente, spesso volutamente silente o irresponsabilmente assente.

Anche sul piano economico abbiamo la necessità di studiare in modo razionale le vie per venir fuori da questa crisi che nel nostro Paese ha determinato la chiusura di migliaia di aziende e una contrazione di oltre un milione di posti di lavoro.

Il primo passo è quello di prevedere una riforma del sistema fiscale che sia in grado di eliminare ogni copertura di corruzione e di evasione riducendo il debito pubblico e trovando le risorse per gli investimenti.

Tra l’altro se non si esce dalla finanza speculativa di questo neoliberismo selvaggio per ridare spazio al lavoro e all’economia produttiva certo non riusciremo ad eliminare il parassitismo amorale di mondi finanziari come i paradisi fiscali, quelli borsistici o legati alle criptovalute ai quali non possiamo più esimerci di dare regole etiche precise.

Forse occorre ridefinire una nuova rivoluzione umanista che rimetta la persona al centro dell’esistenza piuttosto che rincorrere idoli senza senso come quello del denaro fine a se stesso.

Gli investimenti allora nel settore della conoscenza e della ricerca diventano indispensabili per ridare all’Italia il ruolo di Paese impegnato nella cultura, nella produzione dell’eccellenza sul mercato e nel recupero di quell’economia della conoscenza e della tecnologia nella quale purtroppo siamo in forte ritardo.

In tale direzione la scuola deve recuperare il ruolo di comunità educante mentre la formazione professionale continua potrà garantire ai lavoratori la ricollocazione anche dopo i periodi di crisi.

Naturalmente deve ripartire subito la didattica in presenza, ma non sembra fin qui che si stia lavorando nei tempi dovuti per crearne le precondizioni sul piano delle vaccinazioni, dei trasporti e dell’edilizia scolastica.

Il rilancio del sistema produttivo potrà aversi solo se acquisirà i caratteri di un’economia sociale fondata sulla collaborazione solidale tra imprenditori e lavoratori e su reti d’impresa in grado di porsi sul mercato con prodotti innovativi e qualitativamente all’avanguardia.

Per tutto questo c’è bisogno di un cambio d’indirizzo sul piano culturale che non solo ci permetta la cosiddetta transizione ecologica, ma ci renda capaci di rinnovamento e riconversione di settori come ad esempio la produzione di armi, di pesticidi tossici o i sistemi per il gioco d’azzardo che certamente presentano solo funzioni distruttive senza avere alcuna utilità per la popolazione.

Più che insistere sulla creazione di fondi per redditi d’inclusione o di cittadinanza è necessario immaginare tutti i sistemi in grado di generare produzione e lavoro.

Purtroppo su queste direttive che possono far ripartire ricerca, cultura ed economia non vediamo ancora una progettualità concreta capace di ridare all’Italia un ruolo trainante nell’agricoltura, nell’industria, nel turismo nelle relazioni con gli altri Paesi.

Stiamo perdendo anzi enormi spazi nelle relazioni commerciali perfino in quel bacino del Mediterraneo dove potremmo avere una centralità importante.

Preoccupano anche i ridimensionamenti di tante imprese che solo apparentemente sarebbero in partnership con altre mentre in realtà sono finite nella proprietà di aziende straniere.

Creare un’economia sociale allora forse potrà anche aiutarci a porre rimedio alla crisi del capitalismo decadente del nostro Paese dove molti imprenditori rinunciano alla ricerca ed alla produzione per rifugiarsi nel settore dei servizi.

Se vogliamo rimanere attivi ed avere un ruolo apprezzabile in Europa non possiamo trascinare la soluzione di tali questioni specialmente in un momento in cui l’Unione Europea ci sta tendendo la mano per aiutarci.

Non dobbiamo infine dimenticare che l’Italia non può che crescere complessivamente ed articolatamente in tutti i suoi territori coinvolgendo responsabilmente in un progetto di rinascita tutti i suoi abitanti.

(Umberto Berardo)

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