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Tradizione
secolare per le produzioni regionali
“La Molisana” per antonomasia
Marchi conosciuti in tutto il Mondo
I Romani non mancano mai. Così anche per la pasta, piatto simbolo
del nostro territorio nazionale, è fiorente una letteratura che
affonda le radici nella Roma imperiale. Sappiamo, ad esempio, che Cicerone
e Orazio sono ghiotti di “làgana” (dal greco “laganoz”,
schiacciata di farina, da cui le strisce romane di pasta, antesignane
delle nostre lasagne). Marco Gavio Apicio, gastronomo per eccellenza,
con il suo “De re coquinaria libri” c’ha lasciato una
ricca documentazione sull’esistenza di un composto simile alla nostra
pasta, un timballo racchiuso dentro i làgana. Ma le più
antiche testimonianze su formati di pasta cotti in acqua risalgono ad
almeno 3 mila anni prima di Cristo. Rilievi in stucco della “Grotta
Bella” in Umbria, tomba etrusca del IV secolo, riproducono l’interno
di una casa: ai due pilastri centrali sono appesi, tra l’altro,
la spianatoia, il matterello e la rotella dentata.
Notizie più recenti sull’origine della pasta ci portano a
Trabìa, presso Palermo. Da una guida del geografo arabo Al-Idrin,
anno 1154, sappiamo che qui si produce un cibo di farina in forma di fili,
chiamato con il vocabolo arabo “itriyah” (dall’arabo
“itrija”, che sopravvive nella lingua moderna e deriva dalla
radice “tari”, cioè “fresco”). L’esportazione
avviene in botti. Da notare che ancora oggi si trovano la “tria
bastarda” e i “vermiceddi di tria” in Sicilia, la “massa
e tria” e i “ciceri e tria” in provincia di Lecce, la
“tridde” in provincia di Bari.
Nel medioevo sono numerosi i documenti che citano la pasta, seppur nei
modi più originali.
Nel 1244, un medico bergamasco promette ad un lanaiolo di Genova che l’avrebbe
guarito da un’infermità alla bocca se egli non avesse mangiato
né carne, né frutta, né cavoli, né pasta:
“Et non debes comedare aliquo frutamine neque de carne bovina nec
de sicca neque de pasta lissa nec de caulis...” (Roberto Lopez,
“Su e giù per la storia di Genova”).
Per quanto riguarda il vocabolo “macaronis”, il primo sinonimo
di pasta, lo troviamo impiegato nel 1279 dal notaio genovese Ugolino Scarpa
nel redigere l’inventario delle cose possedute dal marinaio defunto
Ponzio Bastone. Scrive: “Una bariscela plena de macaronis”,
indicando una sorta di gnocchetti di semola del tipo dei “malloreddus”
sardi.
Il debutto dei maccheroni in letteratura si ha con il “Decamerone”
di Boccaccio, a metà del trecento, nella descrizione che Maso del
Saggio fa del paese di Bengodi allo sciocco Calandrino: “Ed eravi
una montagna tutta di formaggio parmigiano grattato, sopra la quale stavano
genti che niuna altra cosa facevano che fare maccheroni e cuocergli in
brodo di capponi, e poi gli gittavan quinci giù...”. Boccaccio
probabilmente sente usare il termine “maccheroni” a Napoli,
dove soggiorna sino al 1336.
Il filologo veneziano Agnolo Morosini, all’inizio del quattrocento,
ipotizza due etimologie per i “maccheroni”: il basso greco
“macaria”, impasto di orzo e brodo, o il greco classico “macar”
cioè “beato”, quindi “cibo dei beati”.
Dopo la metà del quattrocento esplode la moda dei ricettari. Nel
1450 Maestro Martino, cuoco del Patriarca di Aquileia, c’informa
sul modo di preparare “maccaroni romaneschi”, “maccaroni
in altro modo”, “maccaroni siciliani” e “vermicelli”
nel suo “Libro de arte coquinaria”, ricette a base di farina
e di acqua. Bartolomeo Sacchi, detto Platina, storiografo e prefetto della
Biblioteca Vaticana, scrive nel 1474 il ricettario “De honesta voluptate”,
in cui si accenna all’essiccazione per conservare la pasta: “Desicata
al sole tale vivanda durara per duo et etiam tre anni. Maxime se dil mese
d’agosto sara ipastata. Se cum luna crescente ipastati”. Il
libro viene tradotto con successo in Francia. Altri ricettari: il “Libro
Novo” di Cristofaro Messisbugo del 1557, scalco presso la corte
del cardinale Ippolito d’Este ai tempi di Ludovico Ariosto e l’“Opera”
del bolognese Bartolomeo Scappi (1570) in sei libri, dove compaiono, con
nomi diversi, i vari tipi di pasta: “tagliatelli”, “maccaroni”,
“maccheroni detti gnocchi”.
Da loro sappiamo che la pasta, in questo periodo, è accompagnata
da ingredienti dolci quali miele, spezie dolci, zucchero e cannella, ma
anche formaggio, burro, brodo di carne. Si usa cuocerla persino in latte
di mandorle zuccherato o in latte di capra.
Il cinquecento è il secolo in cui i “maestri di paste alimentari”
affiancano l’attività di mugnai e fornai riunendosi in sodalizi
di mestiere. Documenti attestano corporazioni di pastai a Roma, Napoli,
Palermo, Milano, Savona. In altre città i pastai si immatricolano
insieme ai fornai. A Roma, chi vende pasta senza essere un fornaio va
incontro a multe e pene corporali: “sino a 25 scudisciate, tratti
di corda, prigione e berlina”.
Sempre nel cinquecento compare anche l’aggettivo letterario “maccheronico”
(tuttora in uso) che indica un linguaggio che miscela parole latine e
italiane. Si sviluppa soprattutto nell’ambiente goliardico padovano.
Il suo massimo esponente, Teofilo Folengo, nato a Mantova nel 1496 e morto
presso Bassano del Grappa nel 1544, è conosciuto con lo pseudonimo
di Merlin Cocai. La sua raccolta “Opus macaronicum”, cioè
“Opere maccheronee”, esce nel 1552.
Nel seicento la pasta è diffusissima. Valica i confini nazionali,
conquista il mondo. In Francia arriva grazie a Caterina de’ Medici.
In Inghilterra una commedia molto in voga s’intitola “The
Macaoni”. Nel 1641 Papa Urbano VIII impone una distanza minima di
24 metri tra un negozio e l’altro causa l’inflazione di botteghe
di pastai.
La “Storia economica del ‘700 genovese” di Giulio Giacchero
ci parla di “trenette avantagé” condite con il pesto.
Nella “Cucina casereccia in dialetto napoletano” di Ippolito
Cavalcanti (1839) compare la prima ricetta in cui il pomodoro è
abbinato alla pasta.
Fino all’ottocento il procedimento d’impasto della semola
con l’acqua viene effettuato con i piedi. Poi i vecchi torchi cominciano
ad essere sostituiti con le presse idrauliche, dove il composto viene
spinto contro la trafila non più da una vite fatta girare a mano,
ma da un pistone azionato idraulicamente. I primi torchi idraulici compaiono
intorno al 1870.
Il processo di meccanizzazione è graduale. La prima macchina in
grado di eseguire tutte le parti del processo produttivo è brevettata
nel 1933. L’introduzione della pressa continua permette di impastare,
gramolare e pressare la pasta contro la trafila senza interrompere il
ciclo di lavorazione.
Con l’avvento dell’essicazione artificiale la produzione di
pasta esce fuori dai confini artigianali e diventa un prodotto industriale.
La diffusione è enorme. Alcune fotografie mostrano i “maccheronari”
partenopei agli angoli delle strade intenti a cuocere la vivanda in enormi
pentoloni e a servirla cosparsa di formaggio grattugiato ed insaporita
di pepe. I clienti mangiano davanti al banco con le mani.
Altri personaggi storici legano il proprio nome alla pasta. Giacomo Casanova
nel 1734 compone a Chioggia un sonetto in onore dei maccheroni. Nel 1824
Antonio Viviani pubblica il poema giocoso “Li maccheroni di Napoli”,
dove appare per la prima volta la parola “spaghetto” in quanto
fino al settecento la pasta è sinonimo di “maccheroni”.
Giacomo Leopardi cita i maccheroni ne “I nuovi credenti” del
1835.
Va poi ricordata la descrizione che Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo
celebre “Gattopardo” fa del timballo di maccheroni: “Buone
creanze a parte, però, l’aspetto di quei monumentali pasticci
era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro,
la fragranza di zucchero e cannella che ne emanava, non erano che il preludio
della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno, quando
il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico
di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature
di prosciutto, di pollo e tartufi nella massa untuosa, caldissima, dei
maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso
color camoscio”.
Famosa, infine, l’avversione di Filippo Tommaso Marinetti per la
pasta. Nel “Manifesto della cucina futurista” scrive: “Crediamo
anzitutto necessaria l’abolizione della pastasciutta, assurda religione
gastronomica italiana”. Arriva anche a sparare un colpo di rivoltella
contro un vassoio di spaghetti. Si farà poi sorprendere e immortalare
in un ristorante mentre divora spaghetti.
La pasta, insomma, accompagna il cammino dell’uomo, grazie alle
sue indiscutibili virtù organolettiche: l’alto contenuto
di amido le conferisce un elevato valore energetico; i costituenti vegetali
(fibre alimentari) garantiscono ottima digeribilità; il basso contenuto
di sostanze grasse assicura benefici per la salute.
La pasta nel Molise
Il marchio “La Molisana” da decenni è certamente uno
dei più noti biglietti da visita del territorio molisano. Per cui
ancora oggi si associa frequentemente il Molise e la sua economia alla
produzione di pasta alimentare. Di certo, anche senza leggi scritte, la
vita dei campi in Molise è regolata da un rispetto profondo delle
tradizioni contadine. Il grano ne resta l’elemento caratterizzante.
Non bisogna tuttavia dimenticare come l’economia cerealicola sia
strettamente connessa a quella storica del territorio, con importanti
ricadute sociali. Il Molise, obiettivamente, è particolarmente
legato a questo cammino di monocolture, ne porta ancora segni evidenti.
Nel bene e nel male. Così la notevole espansione della coltura
cerealicola nel territorio molisano e in tutto il Mezzogiorno, soprattutto
nel settecento, consolida un sistema di organizzazione della media e grande
azienda cerealicolo–pastorale in masserie, feudi, latifondi posseduti
da grandi, medie e piccole casate. Si tratta di gruppi sociali che affondano
radici nel potere economico e nel prestigio sociale proprio grazie alla
coltivazione del grano, che contribuisce ad aumentare la rendita e il
valore fondiario dei terreni.
Le produzioni pastaie si sviluppano, meritoriamente, in strutture sociali
elementari, in un’agricoltura spesso stentata, i cui prodotti sono
assoggettati quasi ovunque alla decima a vantaggio di baroni che rivendicavano
il diritto di esercitare la “feudalità universale”.
In tutto ciò s’inserisce l’assenza di centri urbani
di grandi dimensioni, capaci di stimolare lo sviluppo delle campagne circostanti.
Da non dimenticare, inoltre, la proprietà ecclesiastica, sottoposta
poi a confische da parte del governo borbonico. Le pagine dello scrittore
simbolo regionale, Francesco Jovine, offrono la più valida testimonianza
di tutto ciò.
Ecco perché la diffusione della produzione pastaia nel nostro Mezzogiorno,
l’area geografica con i terreni ed il clima più consoni all’economia
cerealicola, rappresenta la primaria e più importante evoluzione
di tale tessuto sociale. Il meridione, terra della pasta di qualità
apprezzata in tutto il mondo, vede ad esempio il costante miglioramento
delle procedure di selezione e di coltivazione del grano.
Con la diffusione della pasta, ogni territorio, ogni città, perfino
ogni famiglia offre una propria interpretazione personale nella produzione,
inserendo segreti e creatività. Le botteghe artigianali molisane
– e meridionali in genere - spiccano per organizzazione e dinamismo.
Il 1912 è uno degli anni più importanti per il Molise in
questo settore. Si registra un primo salto di qualità con la nascita
del pastificio “La Molisana”, che negli anni si afferma come
azienda leader del mercato pastaio mondiale. Da ricordare soprattutto
gli anni ottanta, quando l’azienda diventa leader del segmento nella
pasta di alta qualità, insieme alla concorrente “De Cecco”.
Dopo una drammatica crisi (con il conseguente fallimento della vecchia
azienda l’11 maggio 2004), il pastificio di Campobasso riprende
a produrre il 6 settembre 2004 sotto la guida del Gruppo Maione. Oggi
“La Molisana” ha circa 130 formati di pasta.
Il 1912 è l’anno di nascita anche della Indaco, l’industria
alimentare “Colavita” che si sviluppa a Sant’Elia a
Pianisi, vicino Campobasso. Il carattere artigianale dell’azienda
le consente di crescere e di guadagnarsi via via la stima e il consenso
sia dei molisani sia dei mercati nazionali e internazionali. Oggi Colavita
è una moderna realtà dell’industria alimentare italiana
e i suoi prodotti hanno già da tempo varcato i confini nazionali
per arrivare in Nord e Sud America, Europa dell’est
e dell’ovest, Australia, Africa e Asia. Nel 1979 l’azienda
si trasferisce a Ripalimosani, in un moderno stabilimento di 33 mila metri
quadrati più vicino a Campobasso. Anche Colavita propone circa
130 formati: dalla lunga alla corta, dalle paste speciali a quelle all’uovo
e artigianali.
Le Industrie alimentari molisane di via Sant’Antonio dei Lazzari
a Campobasso, che hanno origine nel 1880 nel capoluogo molisano, producono
sia la pasta “Guacci”, che lega fortemente il proprio nome
alla realtà molisana (lo slogan storico è “Pastaio
in Campobasso”) e la pasta “Pallante”.
Per completare il quadro citiamo anche lo storico pastificio dei fratelli
Bernardo di Bojano (Campobasso), e la più recente “Pasta
delle Traglie” di Jelsi (Campobasso).
Per apprezzare la pasta, compresa quella prodotta nel Molise, occorre
conoscerne i fattori qualitativi. Si deve accertare la provenienza del
raccolto, acquisire informazioni sulle tecniche di pulizia e di macinazione.
E’ importante verificare la qualità dell’acqua utilizzata
per il successivo impasto della semola, quando amido e proteine, legandosi
all’acqua, formano il glutine. Basilari, quindi, tipo di provenienza
e caratteristiche della semola. Infatti in Italia la pasta secca è
tradizionalmente (e per legge) confezionata con il prodotto della macinazione
del grano duro (“triiticum durum”), appunto la semola. Mentre
l’altra importante specie di frumento, cioè il grano tenero
(“triticum vulgare”) viene usato per la farina, quindi per
la pasta all’uovo. La pasta secca, fabbricata con semola di grano
duro e acqua, in percentuale ai consumi copre una quota pari all’80%.
Altri aspetti importanti sono la lavorazione di gramolatura, trafilatura
ed essiccamento, gli eventuali ingredienti aggiunti e, ovviamente, l’igiene
di conservazione
Il processo di essiccamento, quello finale e più delicato di tutto
il ciclo produttivo, ha una durata che varia in funzione del tipo di pasta
da produrre. La pasta, ventilata con aria calda, sprigiona ed elimina
l’umidità. L’umidità finale, per legge, non
deve essere superiore al 12,5%. L’elemento finale dell’essiccatoio
è il raffreddatore che provvede a portare a temperatura ambiente
la pasta ancora a temperatura d’essiccatoio.
La pasta è molto presente nella cucina molisana. Non è un
caso che i maccheroni alla chitarra costituiscano il piatto tipico del
Natale molisano.
(Giampiero
Castellotti)
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