Provincia di Teramo, oasi di civiltà gastronomica

Per gli abruzzesi la tavola è un rito. È il momento della convivialità, della riunione familiare, del piacere di un’esistenza luculliana almeno nell’alimentazione. Mia nonna, la domenica, cominciava a preparare da mangiare di buon ora e la cucina diventava un addensato di vapori profumati, di colori delle pietanze, di rumori di pentolame e di aromi sovrapposti. Via via giungevano i figli con le famiglie e per noi nipoti era una gioia la “conquista” di qualche leccornia che nonna ci elargiva di soppiatto.

Ho imparato ad apprezzare la cucina abruzzese da lei, che metteva tutto l’amore in quelle pietanze tradizionali. Per quantità e qualità, gli alimenti avevano pochi eguali: ricordo, ad esempio, l’abbondanza e l’assortimento della carne, che in un pentolone enorme color argento emanava aromi incancellabili.

Nella splendida Atri ho ritrovato esattamente quei piatti, così come in quasi tutti i paesi del teramano. Mi sono stupita della coesione del territorio sul versante dell’enogastronomia, con rituali che si ripetono di paese in paese. Ed ogni volta è un piacere rinnovare quelle liturgie che nonna esportò a Roma da Valle Castellana, piena montagna, ma che i parenti sparsi in tutto il teramano, dal capoluogo fino ad Ancarano, Atri, Isola del Gran Sasso, Montorio, ripropongono ancora oggi con poche variazioni.

La cucina, in particolare nel teramano, è genuino pragmatismo legato alla tradizione, al territorio e al ciclo delle stagioni, che sfocia nella socialità e nell’arte. È una sorta di rifugio di civiltà gastronomica, dove l’importanza del buon mangiare si concilia con quella del buon vivere. Emblematico il rito delle “Virtù” del primo maggio, quando si svuotano le dispense per dar fondo a ciò che è rimasto di commestibile della lunga stagione invernale: il buon senso guidato dalla mente si sposa con lo stomaco.

Ritengo, però, che la bandiera delle tipicità locali risponda ad un nome che è una specie di filastrocca: le scrippelle ‘mbusse. Sono delle crepes salate avvolte nel formaggio – nonna lo rimediava da alcuni pastori, De Remigis era il loro cognome, ma talvolta utilizzava proprio il pecorino di Atri, “il migliore della regione”, come diceva – e vengono “affogate” nel brodo di gallina, Nella sua offerta costituivano un must, immancabile compagno di quelle domeniche il cui assembramento casalingo era interrotto soltanto dall’uscita per la messa, che faceva bene all’anima ma raddoppiava il languore nello stomaco.

L’alternativa – e questo termine nella cucina teramana non è nel senso della sostituzione ma sempre dell’aggiunta – era il ricchissimo timballo, innalzato dagli strati di pasta, colorato dall’abbondante ragù di carne, custode di mozzarella e ortaggi. Un altro primo era la pasta alla chitarra con le immancabili pallotte di carne, un’evoluzione delle comuni polpette. Talvolta trovavamo in tavola delle fettuccine larghe, arricchite di ogni ben di Dio offerto dall’orto e da quel fornitore di prelibatezze che è il maiale. Ricordo, in proposito, la ventricina che si spalmava sul pane o la salsiccia utilizzata quasi come contorno dopo essere stata liberata dalla sugna. Immancabili gli arrosticini, spiedini di carne di pecora praticamente inesauribili.

Per i dolci inevitabile l’uso delle castagne, provenienti dai tanti castagneti ombrati dal Gran Sasso e dai Monti della Laga. Le castagne venivano utilizzate quale ripieno di alcuni ravioli dolci, a cui spesso si aggiunge la cioccolata. Presenti anche i cosiddetti bocconotti, biscotti ricoperti di marmellata, per lo più di more.

La devozione a San Gabriele, con tanto di abbonamento alla rivista che veniva elargita a noi ragazzi insieme a qualche santino, aveva la stessa importanza della distribuzione della liquirizia abruzzese, con il divertimento per la mostra dei denti neri.

Il fascino dei paesi del teramano deriva anche dallo stretto legame con le tradizioni e le conoscenze ereditate di generazione in generazione. Non sottrarsi a questo rituale, ricordando la sapienza degli avi, è un’operazione essenziale per dare un senso alla nostra esistenza quotidiana.

(Maria Di Saverio)

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