Reddito e lavoro di cittadinanza

Sul reddito di cittadinanza introdotto con decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 e concesso per un periodo massimo di 18 mesi, trascorsi i quali può essere tuttavia rinnovato dopo una pausa di sospensione, da tempo si è accesa una discussione che va dalle posizioni di Meloni, Salvini e Renzi che ne reclamano l’abolizione fino alle richieste di mantenimento del provvedimento da parte del Movimento Cinque Stelle passando per le idee di quanti lo vedono come uno strumento utile sottolineando tuttavia la necessità di appropriate modifiche.

Di sicuro le determinazioni del decreto in questione non hanno avuto grande razionalità elaborativa e neppure si è agito con rigore nelle verifiche di accesso.

L’assegnazione del sussidio ha visto privilegiare i single sulle famiglie numerose.

I sistemi di controllo per impedire che il sostegno andasse a spacciatori, lavoratori in nero o soggetti lontani da ogni forma di legalità come evasori o mafiosi sono stati del tutto inefficienti.

Un velo pietoso occorre stendere ancora sui “navigator” in scadenza a dicembre come sui Centri per l’Impiego e sull’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive (Anpal) le cui inefficienze operative sono sotto gli occhi di tutti.

D’altronde per fare davvero affidamento su istituzioni socio-economiche impegnate nella promozione dell’inserimento nel mercato del lavoro occorre non certo personale precario e spesso neppure formato come quello talora improvvisato per l’occasione, ma professionisti con grandi competenze al riguardo.

Il Reddito di Cittadinanza, talora più elevato di quelli derivanti da lavori precari o pensioni al minimo, ha in parte disincentivato la richiesta di un’attività complice anche il periodo di pandemia che ha visto un’offerta lavorativa molto bassa.

Con qualche eccezione a Cernobbio gli imprenditori hanno parlato del sussidio come un incentivo alla “teoria del divano” e la Meloni si è spinta fino a definirlo un “metadone di Stato”.

I costi del provvedimento che vanno dai sette agli otto miliardi l’anno ne stanno mettendo fortemente in discussione alcuni aspetti soprattutto in vista della manovra finanziaria di fine anno.

Al di là di facili slogan populisti credo si tratti di riflettere con grande attenzione cercando di trovare una quadra ad un problema complesso come quello della garanzia per tutti i cittadini ad una vita dignitosa.

Che debba esistere una forma di sostegno alle necessità vitali di cittadini e famiglie in difficoltà è a mio avviso fuori discussione; la decisione politica al riguardo dev’essere quella di non renderla una forma di assistenzialismo non dignitoso, ma di legarla in ogni caso, almeno per chi ne ha le possibilità, a forme di attività o a funzioni sociali utili alla collettività e onorevoli per chi le svolge.

Direi che in un provvedimento che voglia guardare non tanto a combattere la povertà, ma a superarla occorre avere come riferimento ispiratore l’art. 4 della Costituzione Italiana che pone in strettissimo rapporto il diritto al reddito con il dovere di svolgere un’attività lavorativa.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

In questo articolo c’è a mio avviso il principio che dovrebbe dettare le norme non per provvedimenti utili solo a tamponare stati di necessità, ma per garantire a tutti uno stato di cittadinanza dignitosa legata in ogni caso, in ragione delle possibilità di ciascuno, ad un impegno lavorativo finalizzato al progresso dei singoli e dell’intera collettività.

Sta di fatto che in tutti questi anni che ci separano dall’entrata in vigore della Costituzione nulla è stato fatto per promuovere appunto le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro per tutti e che solo può determinare giustizia sociale, libertà personale ed uguaglianza di accesso ai servizi.

In Italia secondo l’Istat nell’ultimo anno i cittadini in stato di povertà assoluta sono saliti a 5,6 milioni con un aumento del 20% rispetto a quello precedente.

Il Reddito di Cittadinanza ha sicuramente ridotto il livello d’indigenza di molti soprattutto in un periodo difficilissimo come quello della pandemia e dunque il principio che ne è alla base va mantenuto, anche se il provvedimento va ridefinito con un serio controllo dei beneficiari e con un collegamento all’obbligo d’impegno in lavori socialmente utili di cui fin qui non c’è alcuna seria traccia ed alla formazione per un inserimento in attività produttive legali.

Un team tecnico-scientifico che sembra stia per vedere la luce dovrebbe non solo ragionare sulle forme di sussidio, l’entità e la loro equa distribuzione, ma soprattutto occuparsi delle politiche attive capaci di sviluppare le forme d’investimento produttivo e l’allargamento del PIL che pare possa superare per fine anno il 6%.

Per questo diventa indispensabile una riforma del fisco che abbia aliquote di forte progressività e sia capace di disincentivare lo spostamento di capitali verso i profitti e le rendite invece che in forme di sostegno agli investimenti produttivi.

Il Recovery Fund ci metterà a disposizione una massa non indifferente di miliardi per produrre sviluppo e lavoro.

Se non sapremo utilizzare anche questo strumento, sarà difficile risolvere i tanti problemi sociali che abbiamo davanti soprattutto nel Mezzogiorno.

Rimangono poi i problemi fondamentali sull’occupazione che da anni vengono posti dalle forze politiche spesso in maniera aleatoria ed ipocrita e mai risolti.

Sono i nodi legati alle regole del fisco, alla lotta contro la malavita, la corruzione e l’evasione.

I dati ci dicono che dal 1978 al 2020, i guadagni dei Ceo delle maggiori aziende al mondo sono cresciuti del 1.322%, mentre quelli dei lavoratori medi solo del 18%.

È del tutto evidente la redistribuzione iniqua della ricchezza prodotta cui si può e si deve porre rimedio con un’adeguata riforma del fisco

Occorre poi lavorare su una questione dimenticata come quella della piena occupazione che si può raggiungere con una ripartizione egalitaria delle attività lavorative e quindi del reddito e che rappresenta davvero la soluzione più razionale per eliminare le disuguaglianze e la povertà.

Sarebbe un obiettivo non difficile da raggiungere se la politica operasse secondo criteri di giustizia sociale piuttosto che occuparsi di difendere i privilegi dei ricchi.

(Umberto Berardo)

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