
È stato sincero Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, nel corso della conferenza stampa presso il Centro congresso Frentani a Roma San Lorenzo, sede del comitato promotore dei referendum. Il sindacalista ha detto: «Il nostro obiettivo era raggiungere il quorum per cambiare le leggi, questo obiettivo non l’abbiamo raggiunto».
Decisamente discutibile, invece, il tentativo del promotore del referendum sulla cittadinanza, Riccardo Magi, segretario di +Europa, di indorare la pillola in conferenza stampa, commentando i dati del referendum: «Una parte di elettorato italiano è andato a votare per il referendum sulla cittadinanza ed è un elettorato numericamente superiore a quello che ha votato la maggioranza che legittima il governo in carica». Oltre a non capire il senso di questa dichiarazione a fronte di un problema serissimo qual è quello dell’integrazione dei cittadini stranieri, risulta anche che facendo i conti non è nemmeno così, visto che a votare “Sì” al referendum sulla cittadinanza dovrebbero essere stati meno di 10 milioni di italiani (dati ancora provvisori), quasi due milioni e mezzo di meno dei voti italiani ottenuti dalla maggioranza di governo. E poi è davvero idoneo un calcolo del genere di fronte ad una debacle anche numerica dei referendum? Allora, con lo stesso ragionamento, tutti coloro che non sono andati alle urne – circa il 70 per cento degli italiani – avrebbero paradossalmente seguito le indicazioni dei partiti di maggioranza?
L’unico elemento inconfutabile è che la partecipazione al referendum dell’8 e del 9 giugno si è fermata al 30 per cento. Ben lontani da quel 50 per cento più uno necessario per rendere efficace la consultazione. Niente quorum, quindi, nonostante la massiccia mobilitazione non soltanto del primo sindacato italiano dei lavoratori (tra l’altro, la prova referendaria ha sancito la rottura dell’unità sindacale, con la Cisl che, in modo lungimirante, s’è chiamata fuori da questa esperienza infelice), ma di tutta l’opposizione, che ha trasformato una prova referendaria in un test politico, con la speranza di mettere in difficoltà il governo Meloni. Anzi, come ammette l’europarlamentare Elisabetta Gualmini del Pd, «aver mobilitato tutto il partito (democratico), tutti i circoli, tutti i dirigenti su un referendum che doveva correggere gli errori del vecchio Pd si è rivelato un boomerang». E l’europarlamentare Pina Picierno parla di «sconfitta profonda, seria, evitabile, un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre», aggiungendo che «fuori dalla nostra bolla c’è un Paese che vuole futuro e non rese di conti sul passato». Perché molti analisti hanno visto, in questa strumentalizzazione politica, una sorta di resa dei conti tutta interna alla sinistra, tra riformisti e massimalisti. Con un mondo del lavoro che, al di là di leggi vecchie o nuove, segue logiche sempre più fluide, liquide, globalizzate, che oltrepassano i confini nazionali.
La vicesegretaria della Lega, Silvia Sardone, conferma parlando di “un segnale di sfratto” andato a vuoto.
Raffaele Nevi, portavoce nazionale di Forza Italia, mette giustamente in luce un altro fattore, sottolineando come gli italiani abbiano archiviato definitivamente lo scontro tra lavoratori e imprenditori che si voleva riproporre. «La nostra linea è diametralmente opposta e parla di collaborazione tra lavoratori e imprenditori nella consapevolezza, come abbiamo sancito nella legge appena varata dal parlamento, che il meglio viene fuori non dallo scontro ma dalla collaborazione anche nella gestione delle imprese» spiega Nevi.
Oltre alla bassa partecipazione, i “No” ai quesiti sul lavoro hanno mediamente superato un rispettabile 10 per cento, mentre quelli alla riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana sono andati anche oltre (addirittura un imprevedibile 35 per cento), dimostrando che la pregiudiziale all’immigrazione investe anche fortemente l’elettorato di sinistra e sindacale.
Netto il giudizio, in proposito, di Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, vicepresidente della Camera: «In Italia le 200mila naturalizzazioni di cittadini stranieri ogni anno dimostrano che la legge in vigore sulla cittadinanza funziona e semmai occorre accentuarne la scelta consapevole piuttosto che agevolarne il possesso per convenienza e non per convinzione». In effetti dimezzare i tempi di rilascio della cittadinanza e non collegarla al percorso scolastico sarebbe stato un non senso per l’integrazione, specie di coloro che hanno realmente il desiderio e la convinzione di diventare italiani.
Ci sono poi altri due nodi che la prova referendaria solleva. Il primo è che lo strumento referendario sta sempre più prestando il fianco a strumentalizzazioni partitiche, che ne mortificano il valore democratico. Il secondo è che la raccolta elettronica delle firme per proporre i referendum rischia di inflazionare maggiormente questo che rimane comunque un importante strumento di democrazia. Bene sarebbe alzare il tetto del numero minimo di firmatari almeno ad un milione o ad un milione e mezzo. Anche perché per organizzare ogni prova è richiesto un forte investimento di risorse pubbliche, spendendo un sacco di soldi anche per inviare schede all’estero che, in questa occasione, sono tornate per lo più bianche, come ha fatto sapere il ministro Antonio Tajani.
(Domenico Mamone)