Quarant’anni fa moriva a 88 anni a Roma Donato Menichella, uno dei principali economisti e dirigenti italiani del Novecento.
Dal 1934 al 1944 è stato valente direttore generale dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), la cui azione, come ricorda Pierluigi Ciocca, evitò “il dissesto delle banche e della Banca d’Italia, il panico dei risparmiatori e la fuga dai depositi, il crollo dell’offerta di credito, un’ulteriore contrazione dell’economia” nel difficile periodo autarchico imposto dal fascismo.
Menichella, in particolare, ha saputo valorizzare le partecipazioni industriali e bancarie, rafforzandone efficienza e redditività. Ha reso produttivi gli investimenti. Le “sue” finanziarie di settore – come la Stet nelle telecomunicazioni, la Finmare per i trasporti marittimi o la Finsider per la siderurgia – hanno fatto la storia del nostro Paese.
Si tratta, ovviamente, di altri tempi rispetto ai disastri compiuti sul fronte industriale, in particolare dagli anni Settanta, nel nostro Paese. Con le connivenze e la complicità della peggiore politica.
L’Iri arrivò a controllare, oltre alle tre principali banche (Credito italiano, Banca commerciale italiana, Banco di Roma), la totalità dell’industria siderurgica bellica e quasi la metà di quella comune, il 90% delle costruzioni navali, l’80% del potenziale produttivo di locomotori e locomotive, quasi tutti i servizi telefonici.
Dal 1946 al 1960 Menichella è stato direttore generale per due anni e poi governatore della Banca d’Italia, contribuendo a quel “miracolo” della ricostruzione postbellica e al boom della lira (il Financial Times ha conferito alla lira l’Oscar delle monete per il 1959) grazie anche alla gestione dei fondi del Piano Marshall (1,3 miliardi di dollari nel quinquennio 1948-53, pari al 10% del Pil dell’Italia nel 1949) e all’ideazione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950. Proprio nel 1950 si tornò al livello di reddito anteguerra e nel decennio successivo il prodotto crebbe a medie del 5,8% annuo; il cambio della lira restò fisso, il debito pubblico non andò oltre il 30% e si incrementarono le riserve in oro e valuta.
Come ha scritto Antonio D’Aroma, il secondo presidente della Repubblica, l’economista liberale Luigi Einaudi, che scelse Menichella alla guida della Banca d’Italia, vedeva in lui “il banchiere avveduto e geniale, il tecnico dalla sconfinata competenza, il conoscitore di uomini scettico e scaltro, il negoziatore paziente e infaticabile, il realizzatore concreto ed efficiente”.
Menichella è stato, inoltre, tra i fondatori dello Svimez nel 1946, organismo di alta valenza scientifica e finanziaria che pose con forza nel dibattito pubblico il problema dell’industrializzazione del Mezzogiorno, conducendo importanti ricerche ed elaborando proposte in collaborazione con le autorità di governo ma in condizioni di piena autonomia.
Insomma, Menichella è stato un Italiano di cui essere fieri, di quelli con la I maiuscola.
I più giovani probabilmente ignorano questo importante economista che è stato tra i principali e più onesti dirigenti d’azienda italiani del Novecento. Male, perché Menichella resta un raro esempio di galantuomo d’altri tempi: viene ricordato, tra l’altro, per le sue “autoriduzioni” di stipendio e di pensione: non ritirò, quando fu reintegrato all’Iri, due anni e mezzo di stipendio del periodo bellico e fissò il suo stipendio nel dopoguerra a meno della metà di quanto gli veniva proposto, mantenendolo sempre basso; chiese ed ottenne che gli riducessero il trattamento di quiescenza, praticamente della metà, giustificandosi che gli bastavano pochi soldi per vivere.
Oggi sarebbe un Marziano.
Come ha scritto Guido Carli, finché il Menichella visse, “non lo abbandonò la convinzione che le grandi banche non erano privatizzabili. Era per lui ineluttabile la coesistenza nella nostra economia di due principi organizzativi, quelli dell’impresa privata e dell’impresa pubblica”. La politica economica spettava allo Stato. Proprio lo smembrarsi di questi sacrosanti principi, che hanno lasciato spazio all’economia liquida e globalizzata, dominata da poteri trasversali che sovrastano quelli delle stesse nazioni, ci ha condotto a questi tempi difficili.
Menichella, che era nato a Biccari, in provincia di Foggia, è scomparso a Roma nel 1984. Quattro giorni dopo la sua morte, è venuta a mancare anche l’amata moglie, Anita Moffa. Era stata sua compagna alle scuole elementari. Personalità davvero di altri tempi.