Scamorze amare (del “non” Molise)

Mettiamo un attimo da parte l’amore per la terra d’origine, il Molise. Proviamo a ragionare con la testa e non con il cuore. Fino a ieri abbiamo sempre associato al prodotto molisano la massima qualità, forse perché ricordiamo quei paesi pieni di vacche gonfie di latte, scodinzolanti persino sulle strade provinciali scortate dal pastore cotto dal sole. O abbiamo assistito alle lavorazioni in quelle casette di pietra spessa: una vera e propria “arte” frutto di antiche pratiche, infiniti passaggi generazionali, di tanti segreti e sapienza tramandata di padre in figlio.

Che le cose negli ultimi anni fossero cambiate, ce ne siamo accorti un po’ tutti. Quante macellerie hanno chiuso, specie alla morte del titolare, con i figli a studiare nel Nord Italia? Quanti piccoli negozi a conduzione familiare hanno abbassato definitivamente la saracinesca? Quanti punti vendita in genere sono scomparsi, lasciando solo ricordi sempre più sbiaditi? Quanta gente è andata via per sempre, facendo persino perdere le tracce? E le botteghe, quelle splendide botteghe artigiane, che fine hanno fatto?

Vedendo la trasmissione “Report” di lunedì scorso, con quel lunghissimo elenco di aziende molisane, dai nomi familiarissimi da anni, che purtroppo utilizzano latte estero (molte senza dirlo), in tanti abbiamo avuto il classico colpo al cuore. E’ stata la certificazione di un mondo finito per sempre. E la domanda è ormai spontanea: perché dovremmo comprare nel supermercato a Roma un prodotto che viene dal Molise se poi molisano non lo è più? Chi ce lo garantisce più che quel prodotto rispetta certa “molisanità antica”, certi disciplinari frutto più di pratica che di leggi, dal momento che diverse aziende scrivono sulla confezione o sul proprio sito internet di produrre con latte “molisano al 100%” mentre poi – come s’è visto in tv – viene dalla Germania o dalla Polonia?

Il guaio è che quei pochi produttori, forse pochissimi, che ancora realizzano la scamorza o il caciocavallo come si faceva trent’anni fa e che vendono il prodotto nel proprio comune – reale filosofia del “chilometro zero” – pagheranno per una stragrande maggioranza che continua a beneficiare del nome di un “Molise incontaminato” ma che, ahinoi, tanto “incontaminato” non lo è più. E non dicendolo, come si è fatto per anni, ha portato a tutto questo.

Che senso ha, allora, oggi comprare un prodotto solo perché presumibilmente viene dal Molise? Non è forse meglio, qui a Roma, cercarsi un biologico di Maccarese o di Fiumicino, casomai con i Gruppi di acquisto? Amara ma concreta conclusione.

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