Scudetti, Superlega e il futuro del calcio

Il campionato di calcio di serie A, nella sua stagione più tribolata e mesta degli ultimi anni, tra Covid, Superlega e flop delle italiane nelle competizioni europee, si avvia al termine, con il primo responso già certificato: lo scudetto all’Inter. In questa anomalia generale, persino i festeggiamenti dei tifosi per la prima volta hanno destato preoccupazioni non di ordine pubblico, ma sanitario.

L’imminente chiusura del sipario, benché distribuisca equamente le rituali soddisfazioni e delusioni tra le squadre impegnate nel torneo, non può, però, farci dimenticare la depressione profonda che investe da anni il mondo del pallone. Frutto, principalmente di quella dimensione economica e finanziaria diventata enorme e da cui non si può prescindere. Una crisi, in fondo, condivisa con altri sport mondializzati, ad iniziare dalla formula uno.

Il verdetto del campo, insomma, è e sarà poca cosa rispetto a ben altri verdetti – fondamentalmente legati ai bilanci delle società – sospesi come spade di Damocle.

Certo, gli interessi economici hanno fatto sempre parte della “baracca” del nostro campionato. Non a caso le squadre più blasonate, da sempre, sono ubicate nelle città più dinamiche e benestanti del nostro Paese, sostanzialmente Torino e Milano, mentre il Centrosud si conferma avaro di trofei. Ma, tra internazionalizzazione di ogni attività umana, aumento del numero delle partite, rivoluzione degli orari, merchandising, diritti televisivi, scommesse e quant’altro (e la maggior parte dei tifosi non ha proferito parola), il limone nel tempo è stato sempre più spremuto.

Ovviamente, per gli amanti dello sport puro e romantico, tutto ciò rappresenta unaderiva. Tuttavia è un processo inscritto nelle leggi di mercato e per un mondo del calcio immerso in un mare di debiti, con la pandemia che ha accentuato le difficoltà, la ricerca di soluzioni è ormai imprescindibile per non rompere il giocattolo.

Il progetto della Superlega, in fondo, al di là della facile retorica moralistica, suggellava proprio questo stato di cose. Il calcio, volenti o nolenti, è diventato mondo degli affari a tutto tondo. Per vincere i trofei non ci vuole la poesia ma i quattrini, oggi più di ieri, a livello globale. Il modello è quello statunitense, dove legrandi leghe sportive registrano dati economici invidiabili. La Nfl americana, con poco più di 300 milioni di tifosi al mondo, fattura a livello televisivo più del doppio (6/7 miliardi) della Champions, che ha tre miliardi di appassionati. Potere e affari. La levata di scudi contro il progetto, se da una parte ha visto tifosi legati ad un’idea romantica dello sport (principalmente inglesi), dall’altra ha visto proprio quegli organismi di gestione che hanno accompagnato il calcio in questo pantano. 

Possibile che nessuno si sia accorto – domanda sarcastica – che da anni il calcio polarizzi le attenzioni di magnati internazionali, si pensi al russo Roman Abramovič o allo sceicco Nasser Al-Khelaifi o al cinese Zhang Jindong, ma anche al nostro Silvio Berlusconi che ha permesso l’esaltante epopea del Milan? O che l’elemento identitario, componente antropologica e romantica di ogni squadra, sia sempre più intricato con le esigenze di business? Perché allora scandalizzarsi nel ricercare nuove formule in grado di salvare la nave nel mare in tempesta?

Il calcio, volenti o nolenti, è soprattutto “industria” dell’intrattenimento e la necessità di accrescerne la redditività è ormai il principale obiettivo. Il realismo, piaccia o non piaccia, è ormai in grado di surclassare ogni moralismo.

(Domenico Mamone)

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