
Lo smart working? Probabilmente è stata un’illusione. Dal 2020 abbiamo iniziato a credere che fosse possibile adottare in maniera incondizionata modalità di lavoro flessibili, e molte aziende e istituzioni erano state portate a rivedere le loro strategie sul futuro del lavoro da remoto. Poi, però, con il ritorno alla normalità e le riaperture graduali, anche lavorare da casa è tornato a essere un’eccezione. Non solo in Italia. È recentissimo l’annuncio di Jp Morgan, che segue quello di Amazon sulla fine dello smart working per i suoi dipendenti in Europa e negli Stati Uniti: dovranno tutti tornare in ufficio cinque giorni alla settimana dal 2025. La scelta, apparentemente drastica, è stata giustificata dalle aziende come necessaria per migliorare la collaborazione e la produttività. E altri colossi tech (come Alphabet) ne stanno seguendo l’esempio.
Eppure, negli stessi giorni in cui il colosso dell’e-commerce faceva inversione a U sul telelavoro, dall’altra parte dell’Atlantico, il Comune di Roma, promuoveva il ricorso al lavoro agile per i propri dipendenti, anche al fine di ridurre il traffico e migliorare la qualità della vita.
L’Europa sta d’altronde vivendo una battaglia contro il cosiddetto “presenzialismo”, ovvero l’idea che essere fisicamente presenti equivalga automaticamente a essere produttivi: in Regno Unito, Jonathan Reynolds, segretario di Stato per gli affari economici, l’energia e la strategia industriale, ha intenzione di presentare un disegno di legge sui diritti dei lavoratori che, tra le altre cose, renderà il lavoro flessibile un diritto predefinito. Dunque, da un lato un’azienda hi tech rinuncia allo smart working perché inefficace, dall’altro un ente pubblico – non esattamente noto per la sua efficienza – annuncia che tutti lavoreranno da casa. Due visioni estreme che a ben vedere non offrono davvero soluzioni efficaci per il futuro del lavoro. Esiste una “terza via”? Una strada che riesca a bilanciare innovazione tecnologica, benessere dei dipendenti e performance aziendali?
Probabilmente sì, e sta nel mezzo. Tra il ritorno in ufficio full time di Amazon, Jp Morgan e tante altre realtà e il tentativo del Comune di Roma di spostarsi al cento per cento sul lavoro agile, esiste una terza via ed è quella che abbraccia la tecnologia e il benessere dei dipendenti in modo equilibrato, senza dimenticare la produttività.
Di certo, c’è una tendenza che non può essere ignorata: il 98% dei lavoratori vorrebbe continuare a fare smart working, almeno parziale, per il resto della propria carriera (Buffer | State Of Remote Work 2023). Il futuro del lavoro è ibrido, come attestano anche studi diversi[1]. E noi siamo dello stesso avviso: una formula ibrida con 2 giorni in presenza può funzionare. Ovviamente parliamo di lavori di ufficio: non tutte le attività possono essere svolte in remoto ed esistono lavori di cura e assistenza (scuola, ospedali, tribunali, servizi pubblici) che richiedono la presenza quotidiana.
Oggi il 49% dei lavoratori in ufficio a livello globale lavora con una modalità ibrida, il 35% lavora a tempo pieno in ufficio e il 17% lavora interamente da remoto. Tuttavia, il 66% preferirebbe una modalità di lavoro ibrida (Future Forum, 2022). Il lavoro da remoto, se adeguatamente supportato, comporta vantaggi anche per le aziende. Un’indagine condotta nel 2024 dall’Office of Productivity and Technology degli Usa rileva una relazione positiva tra la produttività totale dei fattori e il lavoro a distanza.
Un’altra analisi condotta da Cisco segnala che la riduzione dei tempi di commuting e la maggiore flessibilità migliorano la produttività per il 60% dei lavoratori. Anche il benessere fisico e mentale ha registrato miglioramenti, con il 69% dei dipendenti che riferisce una qualità di vita migliore e il 78% che afferma di fare più esercizio fisico, grazie alla flessibilità lavorativa che lo smart working offre.
Significativo osservare anche il rapporto tra investimento nel wellbeing e nel welfare per i dipendenti e produttività delle aziende: secondo il Work Wellbeing 100 index, le imprese che registrano alti livelli di investimenti in wellbeing sovraperformano gli indici delle migliori società quotate. Purtroppo il Work Wellbeing 100 del 2024 non è un indice su cui si possa investire, ma se avessimo investito nelle aziende incluse a gennaio 2021, il rendimento sarebbe stato dell’11% superiore rispetto al rendimento dell’S&P 500 entro luglio 2024.
Diverse indagini confermano l’importanza della presenza di un supporto manageriale per il successo nel lavoro da remoto. Ad esempio, un sondaggio del 2023 di FlexOS ha evidenziato che il 78% dei manager crede che una gestione efficace aumenti la produttività e che l’assenza di interazioni faccia a faccia possa essere una sfida. In aggiunta, la formazione specifica aiuta i manager a gestire meglio i team virtuali, con circa il 50% che vorrebbe ulteriore preparazione su questo tema per una gestione più efficace. Le aziende che finora hanno avuto maggiore successo nell’implementare il lavoro da remoto hanno investito in tecnologia avanzata e formazione mirata per i manager. Il supporto dei manager aumenta la motivazione e la coesione del team, migliorando l’esperienza del lavoro remoto e il coinvolgimento dei dipendenti: è la tesi di uno studio condotto durante la pandemia “Skills and abilities to thrive in remote work” di Henke, Jones e O’Neill. Gli autori identificano alcune competenze essenziali per il successo nel lavoro da remoto: capacità di comunicazione efficace tramite strumenti digitali, gestione autonoma del tempo e delle priorità, adattabilità e resilienza nel rispondere a nuove modalità operative. Altre abilità includono la collaborazione virtuale e il mantenimento della motivazione e del coinvolgimento, nonostante la distanza fisica dai colleghi. L’adattamento non è in ogni caso automatico. Poi, non per tutti i settori lo smart working funziona allo stesso modo e molto dipende dal grado di digitalizzazione che è molto diverso tra un comparto e l’altro[2].
I settori tecnologico e di consulenza, orientati al raggiungimento di obiettivi specifici e al rispetto di scadenze, hanno generalmente abbracciato il lavoro da remoto con successo. Fino all’85% dei lavoratori in questi settori ritiene di poter gestire in modo autonomo la propria produttività e l’organizzazione del lavoro a distanza. Questa percentuale è influenzata dal fatto che questi settori spesso dispongono già di infrastrutture e strumenti digitali avanzati, così come di una cultura aziendale che valorizza flessibilità e autonomia.
Per i settori come l’ingegneria civile e il settore pubblico, invece, la trasformazione è più complessa e richiede un cambiamento culturale profondo. Questi ambiti, meno digitalizzati, devono fare i conti con carenze infrastrutturali e formazione limitata. Come confermano i dati, il 72% dei lavoratori in questi settori trova difficoltà nell’adozione di strumenti digitali, dovendo spesso affrontare problemi di integrazione con i processi esistenti e una carente disponibilità di strumenti di monitoraggio e collaborazione digitale trasparente.
Esistono casi virtuosi di smart working. Lo è quello di PwC, che ha implementato un sistema di lavoro ibrido che consente ai dipendenti di scegliere quando lavorare da casa o dall’ufficio. Microsoft, invece, ha investito in tecnologie che permettono di mantenere team connessi e produttivi anche a distanza. Spotify rappresenta un esempio di approccio completamente flessibile. Katarina Berg, direttrice delle risorse umane della multinazionale, ha spiegato che la filosofia dell’azienda è orientata alla fiducia e alla flessibilità: “Siamo un’azienda digitale fin dalla nascita, perché non dovremmo dare flessibilità e libertà alla nostra gente? Il lavoro non è un posto in cui vai, è qualcosa che fai.” Si tratta di aziende tutte del mondo digitale, che chiaramente non rappresentano un benchmark assoluto. Un caso recente è quello di Ubisoft, società di videogiochi francese, i cui dipendenti hanno ottenuto un modello “3+2,” cioè tre giorni in ufficio e due a casa, sostenendo che una maggiore flessibilità è essenziale non solo per la qualità del lavoro, ma anche per l’equilibrio personale.
Per far funzionare davvero lo smart working, serve un equilibrio tra tecnologia e benessere. Non si può pensare di trasferire migliaia di dipendenti in modalità full remote senza costruire infrastrutture adeguate e, soprattutto, senza formare i manager su come gestire persone e team da remoto. Il benessere dei dipendenti è cruciale: un’azienda che non sa creare un ambiente di lavoro inclusivo e positivo, sia in ufficio che a distanza, non potrà mai trarre pieno beneficio dallo smart working.Un’occasione persa?L’Italia ha perso l’occasione di evolvere davvero verso un modello di smart working virtuoso? Probabilmente. Ma non è mai troppo tardi per invertire la rotta.
Amazon e Roma rappresentano due visioni estreme: una iper-presenzialista, l’altra eccessivamente fiduciosa in un sistema che non ha ancora la maturità tecnologica per essere implementato su larga scala. La verità è che lo smart working può funzionare solo quando c’è una strategia chiara, un’infrastruttura tecnologica solida e una gestione orientata al benessere e agli obiettivi. Se vogliamo che il futuro del lavoro sia davvero smart, dobbiamo investire in innovazione, formazione e, soprattutto, nel costruire un nuovo mindset.
[1] Due esempi: https://www.gallup.com/workplace/511994/future-office-arrived-hybrid.aspx e https://www.flexos.work/learn/hybrid-remote-work-statistics-trends-2023[2] https://whatfix.com/blog/digital-transformation-by-sector/
(di Matteo Musa, CEO e Co-Funder di Fitprime)
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