
Nell’epoca dell’irrefrenabile globalizzazione capitalista, sistema economico e culturale per sua natura espansionistico e transnazionale (saldamente penetrato ormai anche nei Paesi “socialisti”, Cina e Russia in testa), i progetti di Trump – o forse sarebbe più idoneo chiamarli “ricatti” per facilitare le conseguenti trattative – stridono con quella società dei consumi di matrice squisitamente calvinista-statunitense. Rilanciare il sovranismo, alzare steccati, disseminare dazi per riproporre l’idea della “Grande America” stona di fatto con una realtà mondiale ormai costituita da mercati e da nazioni sempre più interdipendenti tra loro. Il tentativo di rilanciare il ruolo degli States nello scacchiere internazionale, dopo aver provato a farlo con le armi “esportatrici di democrazia”, appare sinceramente disperato rispetto alla drastica riduzione del peso economico e tecnologico statunitense a fronte della crescita in particolare dei Paesi asiatici.
Ma questa storia ha radici antiche.
Gli Usa, i vincitori della seconda guerra mondiale, hanno cominciato a conquistare, anche economicamente e culturalmente, gran parte del vecchio continente nel dopoguerra, in piena guerra fredda. In particolare l’Italia, una “diga” ai sogni sovietici di “infiltrazione” nel Mediterraneo, ha sempre rappresentato un territorio ideale per installare basi militari, disseminate, ad esempio, a Napoli, Ghedi, Aviano. La Nato è l’ombrello su tutto ciò. Gli investimenti del Piano Marshall hanno poi creato le basi del “mercato italiano”, con la presenza di quote crescenti di prodotti “made in Usa”, inizialmente simbolici la Coca Cola, il blue jeans e la gomma da masticare, poi il fast food, fino allo tsunami di quelli culturali, dalla musica al cinema fino ai sempre più diffusi anglicismi nel nostro linguaggio quotidiano. Qualcuno ha cominciato a parlare, a buon ragione, di “colonialismo culturale”.
Parallelamente gli Stati Uniti hanno adottato l’Italia anche politicamente. Abbiamo visto all’America come la maggiore democrazia del mondo, benché sia una nazione dove si pratichi ancora la pena di morte. E si voti in massa un presidente condannato, i cui sostenitori si sono resi protagonisti dell’assalto al Congresso.
Negli anni, i sospetti di infiltrazioni della Cia in Italia sono stati molteplici. Ci sarebbero stati già alle prime elezioni politiche della neonata Repubblica, quando i democristiani sconfissero i comunisti e i socialisti. Raccapriccianti ipotesi restano aperte sulla fine di Enrico Mattei in un misterioso incidente aereo nel 1962: il fondatore dell’Eni si era opposto proprio agli interessi statunitensi nel ricco business petrolifero. Nel 1978 Aldo Moro, che stava aprendo il governo ai comunisti, fu rapito e ucciso dalle Brigate Rosse e qualcuno ricorda le minacce di Kissinger. Anche l’agonia di Bettino Craxi negli anni Novanta viene spesso collegata al suo coraggioso rifiuto di consegnare all’aeronautica americana i prigionieri arabi catturati su una nave italiana. E non vanno dimenticate le nostre partecipazioni alle guerre Usa o alla fine di Gheddafi nel 2011, Obama tra i probabili registi e Berlusconi indolente esecutore.
Tutto ciò, è innegabile, ha trascinato al ribasso il livello culturale e cognitivo medio degli italiani, un tempo emblema dell’umanesimo e dell’illuminismo. Una regressione che comprende, ovviamente, anche le classi dirigenti. Per quanto, ad onor del vero, il “protettorato statunitense” abbia garantito a lungo pace e benessere.
Tuttavia il vero rischio per gli Stati Uniti di Trump è quello che il declino americano sia irreversibile su tutti i fronti. Quello economico è cominciato, ma presto potrebbe trascinarsi dietro anche quello culturale (o pseudoculturale). I tentativi di frenata con i dazi o altri palliativi rischia concretamente di rivelarsi infruttifero. Se non dannoso.
Ma la crisi americana s’inserisce nella più complessiva crisi del mondo occidentale. L’Europa c’è dentro. Il boom delle destre estreme ne è la conseguenza più lampante. La paura è che la colonia culturale statunitense si trasformi in qualcosa di peggio, con culture e fedi religiose ben più pericolose, come c’ha messo in guarda Oriana Fallaci.