Per quei pochi che – contenti loro – si stanno appassionando al dibattito precongressuale del Partito democratico, fatto onestamente di molti antipasti e di poche pietanze, la figura che sembra sparigliare maggiormente le carte tra tanti “film già visti” è quella di Elena (Elly) Schlein, 37 anni, europarlamentare a 29 anni ed ex vicepresidente dell’Emilia-Romagna, esperienza interrotta lo scorso 24 ottobre in quanto eletta deputata.
Sarà per quel cognome difficile da pronunciare, per la relativa novità del personaggio rispetto ad altri candidati già consumati o per una storia familiare importante, la Schlein sta salendo prepotentemente alla ribalta. Probabilmente non ce la farà ad essere l’erede di Enrico Letta, ma oggi indubbiamente i riflettori sono puntati su di lei. Perché? Perché in un partito stretto tra ambizioni socialdemocratiche, pulsioni liberali, nostalgie comuniste e attività liberiste, quella “sinistra moderna” che da anni non riesce a trovare una sua degna rappresentanza, provando ciclicamente a tirar fuori il coniglio dal cilindro (vedi Aboubakar Soumahoro), è convinta ora di aver pescato il jolly. Tra l’altro al di fuori del partito stesso, dal momento che la Schlein è tornata nel Pd dopo sette anni transumanti.
La candidatura della Schlein alla segreteria del Pd, che ha rianimato spezzoni della sinistra “antagonista”, sembra in effetti essere in grado di coniugare quell’immancabile pedigree benestante e intellettuale da Ztl, cioè “zona a traffico limitato” – non a caso il partito ha le roccaforti nei centri storici delle città, dove vive la nomenklatura amministrativa – con una piattaforma politica che rispolvera marmoree e universalistiche parole d’ordine della sinistra più estrema e a volte anacronistica, perennemente sepolta e “proletaria” ad intermittenza, talvolta per noia. Tra i più noti diktat, a titolo di esempio generale, ricordiamo le crociate contro il neoliberismo fatte con le Nike ai piedi, o gli appelli per la ridistribuzione della ricchezza (degli altri), o la lotta alle disuguaglianze urlata dal casale sulle colline toscane fino alle battaglie ambientaliste prudentemente interrotte durante i tragitti con l’auto di servizio. E via di questo passo (e di questa coerenza).
Passando nello specifico al “caso Schlein”, a ciò si aggiunge il fatto che la candidata sia dichiaratamente bisessuale, condizione che dovrebbe costituire un fatto personale, ma è invece sventolato e considerato – in questi ambiti – l’ennesimo valore aggiunto.
Ovviamente nulla contro la Schlein. Anzi, ben vengano nuove proposte – anche criticabili – in un agone politico spesso troppo uniformato. Ma gli slogan antiliberisti, che costituiscono i prevalenti grani del rosario della Elly, cozzano decisamente in un’Italia che di liberale e liberista ha davvero poco.
Quanto liberismo ci può essere in un Paese in cui i dipendenti pubblici, tanto per fare un esempio, sono circa tre milioni e mezzo, per lo più elettori del Pd: praticamente uno su sette, senza contare tutte quell’alone di società pubbliche direttamente o indirettamente “allattate” dalla pubblica amministrazione? E la spesa pubblica nel 2022, dati di Confartigianato, ammonta al 54 per cento del Pil e praticamente due terzi dell’intera economia è intermediata dallo Stato? E dove il reddito di cittadinanza, oltre ad essere percepito da molti come “una pretesa”, è di fatto la pensione anticipata per tanti giovani in età da lavoro?
Qualche altro dato per rendere incontrovertibile quanto affermiamo: secondo Heritage Foundation siamo al 57esimo posto su 177 nella classifica delle libertà economiche; al 103esimo posto nella classifica dei Paesi per mercati che premiano le competenze e il merito; al 127esimo posto nella classifica dei paesi per flessibilità nell’assumere e licenziare dipendenti (fonte: Forum economico mondiale, Wef); al 128esimo posto nella classifica per la facilità nel pagare le imposte (Doing Business). Basta?
Al di là degli slogan o della partecipazione a qualche manifestazione, forse Elly Schlein ci dovrebbe dimostrare altro. Le cronache, infatti, spesso riportano unicamente dettagli sulla sua blasonata famiglia: il nonno paterno nato vicino a Leopoli, origini ebraiche, s’è affermato come commerciante di abbigliamento negli Usa; il padre è stato politologo e accademico di fama e la madre preside di giurisprudenza all’Università dell’Insubria; il nonno materno, Agostino Viviani, avvocato senese, senatore con il Partito socialista ed eletto al Consiglio superiore della magistratura nel 1994; la sorella Susanna è stata console in Germania; il fratello Benjamin è professore di fisica all’Università di Zurigo. Di lei sappiamo che ha tripla cittadinanza: italiana, svizzera (è nata a Lugano) e statunitense.
D’accordo, le radici sono importanti, non c’è dubbio. Ma davvero il Pd, frutto di un lungo e tormentato percorso di superamento della matrice comunista, può affidarsi ad una pasionaria imbevuta di ideologia d’antan?
(Domenico Mamone)