Una rimodulazione iniqua di aliquote e scaglioni

A leggere le dichiarazioni dei diversi partiti tenute dopo il tavolo tecnico convocato dal ministro Daniele Franco pare ci sia un accordo unanime delle forze di maggioranza sulla riforma fiscale prevista dal governo Draghi.

La cosa non meraviglia affatto in un governo di unità nazionale dove sembra non esistere più alcuna forma di proposta alternativa rispetto a quelle di un presidente del consiglio unanimemente osannato.

In un Paese normale un riordino dell’Irpef dovrebbe avere tre presupposti fondamentali legati all’equità, al rispetto della Costituzione e soprattutto ad un esecutivo espressione della volontà popolare.

In questo accordo politico che potrebbe poi tradursi in emendamenti alla Legge di Bilancio non mi pare si possa individuare nessuna di tali condizioni preliminari.

Il governo in carica non ha certo alla base una scelta democratica, ma è il chiaro risultato di una decisione verticistica ed oligarchica tenuta in una condizione di emergenza dovuta alla pandemia ed alla crisi profonda della politica.

Un tale esecutivo, frutto di una sovranità popolare sospesa, dovrebbe pertanto gestire l’emergenza e lasciare la soluzione di questioni fondamentali del Paese a chi è davvero espressione di una rappresentanza dovuta ad elezioni libere e frutto di una reale democrazia partecipata.

L’articolo 53 della Costituzione Italiana recita testualmente “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Oggi il contribuente paga il 23% fino a 15.000 euro, il 27% da 15.000 a 28.000, il 38% da 28.000 a 55.000, il 41% da 55.000 a 75.000 e il 43% oltre i 75.000.

L’ipotesi di riforma non prevede aliquote sempre più articolate e progressive, come previsto appunto dall’art. 53 della Costituzione, ma addirittura le riduce da cinque a quattro.

Quella della fascia di reddito più bassa fino a 15.000 euro resta invariata al 23%, tra 15-28.000 scende dal 27% al 25%, tra 28-50.000 viene ridotta dal 38% al 35%, mentre oltre i 50.000 si passa al 43% cancellando, quindi, l’aliquota del 41% e non prevedendone magari un’altra del 45% oltre una fascia di reddito più elevata che taluni economisti immaginano oltre i 100 o 200.000 euro.

È del tutto evidente come una tale riforma dell’Irpef sia lontana da ogni forma di equità e, contrariamente ad ogni disegno di progressività, preveda maggiori vantaggi proprio sui redditi più elevati con particolare riguardo alla fascia tra 28 e 55.000 euro.

Anche le ipotesi di calcolo delle detrazioni, sulle quali occorre ancora trovare un’intesa, non sembrano portarci verso una semplificazione, ma prevedono un calcolo alquanto complesso e dovrebbero andare in parallelo con il cosiddetto assegno unico universale e l’assorbimento del bonus previsto dal governo Renzi.

Assurdo anche che l’assegno per mogli e figli a carico, pur nella progressività legata all’ISEE, possa riguardare tutte le famiglie con qualsiasi tetto di reddito penalizzando nella distribuzione delle risorse i più bisognosi.

Ci sarebbe anche l’intesa per eliminare il pagamento dell’Irap a tutte le ditte individuali ed ai lavoratori autonomi

Siamo chiaramente di fronte ad una manovra che non presenta alcun tipo di equità sociale perché penalizza le fasce più deboli della società, non riduce le diseguaglianze ed oltretutto non contribuisce certamente a spingere i consumi visto che non aiuta la stragrande maggioranza della popolazione.

Mi auguro davvero di sbagliare, ma non mi sembra che nella rimodulazione delle aliquote Irpef o in una prossima riforma fiscale qualcuno stia avanzando l’idea di una tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze o la necessità di porre in essere gli strumenti di accertamento più adeguati a scovare e quindi eliminare l’evasione fiscale che, diversamente da quello che taluni immaginano, non riguarda solo le piccole attività autonome, ma anche professionisti e grandi società multinazionali.

Senza una lotta all’evasione fiscale è del tutto evidente che, agganciando all’ISEE gli assegni familiari, tutto viene falsato perché lo Stato in tal modo, come sosteneva don Lorenzo Milani, continuerà a fare parti uguali tra disuguali distribuendo fondi pubblici provenienti dal fisco anche a chi evade.

Mancando la più banale consapevolezza che la piaga dell’Italia è la corruzione personale o quella di gruppi di potere questo nostro Paese rimarrà bloccato e disuguale a livello economico, sociale e territoriale.

Se c’è qualcuno che ancora vuole definirsi rappresentante del mondo operaio e dunque espressione di quella che si definisce area di sinistra, occorre che trovi il coraggio di impedire che una tale riforma del fisco del governo Draghi possa trovare approvazione in Parlamento.

Nei prossimi giorni ai tavoli di confronto convocati dal governo con partiti e sindacati spero si avanzeranno tutte le modifiche del caso sulle nuove aliquote Irpef, sul futuro del fisco e sul sostegno ai disoccupati in una direzione che cerchi di guardare a chi anche nell’Unione Europea sta disegnando una diminuzione dell’orario di lavoro per tentare di raggiungere la piena occupazione, di imitare chi pensa già ad un salario minimo di dodici euro l’ora, di rivalutare decentemente le pensioni e soprattutto di progettare politiche attive di lavoro con l’incentivazione del risparmio verso investimenti produttivi piuttosto che in operazioni finanziarie speculative.

Di due cose abbiamo fortemente bisogno in questo momento e cioè che l’economia italiana torni allo sviluppo ed alla creatività e che la ricchezza sia distribuita più equamente per sconfiggere disoccupazione e povertà attraverso forme risolutive invece che con sussidi di scarso rilievo ed esigua efficienza sociale.

Almeno qualche forza politica ancora non totalmente succube del mondo finanziario abbia il buon senso di non definire la riforma Irpef prevista dal governo Draghi come un punto di equilibrio, ma cerchi di ridisegnarne i criteri per renderla funzionale agli interessi collettivi e non a quelli di parte.

(Umberto Berardo)

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