Vittorio Feltri e il suo ruvido amore per il Molise

11/03/2013 Roma. Trasmissione televisiva Rai Porta a Porta. Nella foto il giornalista Vittorio Feltri

C’è profumo di umano nella confessione resa in un capitolo dell’ “Irriverente”: il nuovo libro di Vittorio Feltri, apparso giorni fa per la Collana saggistica di Mondadori.

Nel percorso fatato della sua infanzia, dell’adolescenza e della sua giovinezza vissuta a Guardialfiera, c’è tutto l’ordine e il disordine del suo cuore che dirompe e tracima oggi, proprio come faceva il nostro Biferno ieri. C’è l’occulta ma indomita frenesia di quel volerci ancora  bene.

Narra d’essere arrivato qui, per la prima volta a cinque anni, nel 1948, a soggiornare con zio Ernesto Villa e zia Nella, di Bergamo, autentici Signori d’altri tempi e amministratori delle <Aziende Baranello>.

Svanito per loro, il dono dei figli e, in piena guerra, accolgono a casa Antonino Villa, classe 1937, venuto disadorno da Castiglione di Sicilia, figlio di Ercole (Fratello di Ernesto, Sottufficiale dei CC., precocemente scomparso) e di Angelina Tornatore.

Io ero allora in quarta elementare assieme ad Antonino, assieme a Peppino Bracone e Mario Ianniruberto, quasi abbracciati noi quattro, in uno stesso banco sgangherato, modellati nella vitalità e magnetizzati dalla leggiadria di Olga di Lalla, l’insegnante del quinquennio. Ma vacanze funeste per tre alunni di quel banco. Peppino Bracone muore impiccato, da incognita mano assassina, fra i ruvidi campi del Cervaro. Mario, fulminato da infarto nel Santuario della Difesa a Casacalenda, s‘accascia e spira tra le braccia e l’incredulità costernata dei pellegrini. Antonino (il familiare di Feltri) è aggredito da forma violenta di meteorismo, operato d’urgenza di peritonite, resta a lungo convalescente. Perderà un anno di scuola. Soltanto io, dunque, a scamparmela, e mi ritroverò atterrito e solitario in ottobre su quello scanno maledetto.

Poi, per due anni, Antonino ed io a Casacalenda, da zia Anita nella stessa casa e a scaldarci di notte, accostando in due lettini. Frequentiamo le Scuole Medie, dentro l’enorme Istituto Scipione Di Blasio, devastato dai tedeschi, senza corrente elettrica e riscaldamento.

Lì Antonino conseguirà, un anno dopo di me, la Licenza Media e avrebbe desiderato seguirmi ancora a Larino per il Ginnasio. Sennonché la mamma sicula, Angelina Tornatore divenuta più agiata, lo strappa ferocemente dalla tenerezza dei suoi zii bergamaschi e, da Guardialfiera, lo ritrapianta a Castiglione di Sicilia. Però egli, frustrato dal distacco, s’allontanerà dalla mamma e dalla Sicilia. Farà il camionista nell’Italia del nord e, in un mattino di nebbia impenetrabile, morirà giovanissimo nel 1962, vittima della strada.

Affamati d’affetto, Ernesto Villa e Daniella Sangalli, di nuovo soli, vagheggiano la riconquista del nordico calore intimo e umano. Dopo quella puerile e romantica irruzione di Vittorio Feltri del 1948 – pittorescamente decorata proprio in questo “riguardoso” capitolo dell’ “Irriverente” – egli tornerà con tenacia ogni anno a Guardialfiera ad attutire il doloroso tracollo degli zii. Tornerà perfino dopo  che la morte raggiungerà zio Ernesto Villa a 66 anni l’8 settembre 1959.  Verrà spesso da zia Nella, anche insieme alla sua mamma Delia, assai ammirata da me. (L’ho aiutato volentieri, per caso, a ottenere dall’Inps la pensione di riversibilità di suo marito Angelo, morto a 43 anni da insufficienza surrenalitica, allorché Vittorio ne aveva soltanto sei!). Farà ritorno con Ariel, divenuto redattore dell’ “Eco di Bergamo”, con Mariella e la zia Tina.

C’è in questo tempo povero e antico, un accrescimento d’amicizie con loro; c’è il balsamico star bene insieme. E Vittorio, frattanto, bruca queste “Terre del Sacramento” e, fra paesaggi di fieno e di grano, intreccia amicizie con contadini servizievoli. con tante piccole bande di monelli e con Franco Mancini, il giovane sarto che lo tuffa per la prima volta nella corrente vorticosa e trasparente del Biferno. Quel Franco, oscuro artista del pennello e dell’argilla, che sbozza timidamente teste di “asini” e inconfondibili volti di potenti e impotenti.  Inaspettatamente, gli capita di intagliare anche dal legno, volti e colli allungati e scandalose statue di donne alte e nude, come quelle del Modigliani.

Pur lavorando altrove, vivo lucidamente la vita di Guardia, soprattutto da quando Franco Mancini è oppresso dall’atrofizzazione progressiva agli arti e apprende da zia Nella il lutto di Vittorio: la morte cioè della moglie 24.enne, avvenuta nell’attimo in cui dava al mondo le gemelle Laura e Saba. E’ muto Franco sulla solita sponda del Biferno. E, meditando l’angoscia dell’amico, adocchia uno sterpo rude rifiutato dal fiume. L’arbusto è annerito. E’ duro. Ma lo piega tenacemente, lo manipola. Ne ricava il viso oscuro di Maria, la Corredentrice. Poi, quel giorno, a casa sua, proponiamo un titolo biblico al realizzato lavoro: “Nigra sum, sed formosa filiae Jerusalem”. Seppur nella incompletezza, Carlo Savini, Presidente dell’Unione Europea dei Critici d’arte, viene a Guardia e considera l’opera di Franco di “alta delicatezza armonica ed espressiva”. E, per la 4^ Rassegna molisana d’arte contemporanea, la statuina, nel 1992, rimane esposta per 15 giorni, ed è magnificata nella Galleria del Canova, una delle più eleganti di Roma. Franco, intanto è morto da pochi mesi.   

Il 12 agosto dell’anno 2000 Vittorio Feltri e a Guardialfiera a presentare “Quei Cavalieri Virtuosi”: pensieri e memorie di un mondo vagheggiato e scomparso, scritto da Vittorio Grande, suo coetaneo. C’è a pagina 35 il profilo e una trascinante coordinata di Ernesto Villa. Durante il Convegno, salutando e porgendo la parola a Feltri, faccio dono finalmente a lui della scultura di Franco Mancini. Ma mi si annoda la gola, né riesco a narrare a lui la genesi di quell’affettiva opera d’arte. E ancora oggi Vittorio non ne conoscerà l’intreccio.

Orbene Feltri, lo ricordo, lo ricordiamo così: lunatico e amabile, espansivo ed esplosivo. Talvolta gustosamente turlupinante. Fondamentalmente onesto! Con quelle battute e sfide provocatorie e inquietanti, seriose. Come nelle parodie di Crozza. Proprio come ha guizzato da mattatore venerdi scorso, 8 novembre, alla Rai, sia al pomeriggio in “un giorno da pecora” sia a sera nel TG-2. Vittorio, insomma, seguita a parlare un linguaggio senza peli e scorciatoie che fanno reagire affannosamente chi è nemico del giusto e del vero. Guai – secondo lui – a chi, come i guardiesi e i meridionali, dimenticano le loro carenze e le loro inadempienze.

Tuttavia ho avuto con lui qualche amichevole dissenso: su “Panorama”- per esempio – del 4 novembre 2010, ci beffeggiava per il godimento, qui, d’un nugolo di zanzare. Ebbene noi l’abbiamo debellate ben prima dei padani e dei lombardi. Né davvero son mai state queste le più feroci della penisola. Ridicolizzava inoltre Guardia in quella sua prima venuta (1948), perché allora senza “cessi”, ossia senza servizi igienici. E l’ho contestato per il fatto che – a differenza anche di taluni paeselli “pigroni” del nord, a Guardia nel 1948, cioè nella immediata stagione post-bellica e nonostante il divario, si è acceso la prima scintilla di modernità e la prima immissione del Molise nella società dei consumi. Forse era presente persino lui, bimbo di cinque anni, (io ne avevo sette più di lui) allorché l’Impresa De Notariis di Castelmauro, venne a creare in autunno maree di fango per tutte le vie, ma per realizzare le “cloache”, le prime in assoluto sull’intero territorio circostante. Noi, dunque gli ancestrali nel sobbalzo della civiltà nuova. E l’acqua in casa, per tutta la città nel 1957.

Amerei ricordare, almeno a me stesso, che già nel 1889 a Guardialfiera, dalla monumentale fontana pubblica eretta in piazza, schizzava acqua corrente, proveniente dalle nostre sorgenti di “Fonte Loreto”.

Ma, lo ammetto, è vero, come egli scrive, che “ci siamo candidati al suicidio”, che abbiamo distrutto il presente e il futuro dei giardini immensi, e sfregiato una miniera che richiedeva soltanto d’essere trasformata in fonte di ricchezza turistica, economica e occupazionale”.   

E devo gratitudine a lui per le tante volte che si è accorto della cultura prodigiosa della nostra gente. Parlò sull’ “Europeo” del conferimento – per mano della pro-Sindaco di Roma Maria Medi (figlia dello scienziato Enrico) della “Lupa Capitolina”, come caparra e legame potente di Guardialfiera, alla Capitale d’Italia. Ne parlò caldamente per il GR-2 Augusto Giordano, svelatosi amico suo e originario di Oratino.

Sul finire degli anni ’90, per conto del suo periodico, Feltri inviò qui Antonio D’Orrico per intervistare “i dannati del Biferno” e scovare curiosità inedite fra amici e conoscenti sopravvissuti di Francesco Jovine.

L’8 settembre 2017, sfodera in prima pagina di “Libero”, il seguente proclama: “Meno male che c’è il Molise” e, volgendosi all’italico sapere, in un paginone intero, irrompe: “E’ giunta l’ora di raccontare il Molise dimenticato”.

Intorno a Natale del 1987 mi fa rintracciare a Palata da Nino Amoroso, Presidente allora dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio e Molise. Mi fissa l’incontro a Guardia anche con Tonino Scarlatelli e Tonino Trolio, quest’ultimo già guardiano e cavallaio di Baranello. Colmandomi di tenerezze, mi borbotta: “Questo tuo paese non è uno sciame di case: E’ il pane caldo. E’ nostalgia di nodi che s’intrecciano con le arterie, con la carne, col destino degli ortolani, discacciati dalle Terre del Sacramento, ancora oggi insultati e irredenti. E Guardia, anche se così, per te e per me, rimane il villaggio dove passano le nuvole più belle”.

(Vincenzo di Sabato)

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