Ex Ilva, doccia fredda per il Mezzogiorno

Una doccia fredda, gelata. ArcelorMittal, la società inglese nata dalla fusione tra i francesi di Arcelor e gli indiani di Mittal, introdotta nel 2015 dal governo Renzi (con Carlo Calenda allo Sviluppo economico) per promuovere gli investimenti nell’area dell’ex acciaieria di Taranto evitandone la dismissione, ha deciso di abbandonare gli ex stabilimenti dell’Ilva. Il motivo ufficiale? L’approvazione definitiva del Parlamento del decreto salva-imprese, nel quale i senatori del Movimento Cinque Stelle hanno soppresso lo scudo penale a favore del gruppo anglo-indiano.

Su questo punto la multinazionale è stata chiara, affidando le proprie considerazioni ad una nota: “Nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso contratto”. E ancora: “Con effetto dal 3 novembre 2019, il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”.

La nuova proprietà, lo ricordiamo, si era impegnata per 1,1 miliardi di euro in un piano di riqualificazione ambientale dell’impianto. E la scorsa estate, segnale non proprio incoraggiante, era partita la cassa integrazione per 1.395 lavoratori in un’azienda che comunque produce perdite anziché utili.

Per l’ex Ilva, con questa ulteriore tegola, il futuro appare ancora più incerto. In ballo ci sono non solo i 20mila posti di lavoro collegati direttamente o indirettamente al più grande impianto siderurgico d’Europa, ma anche la realtà sociale e ambientale di Taranto e di un lembo importante della Puglia.

Ma il problema dell’ex Ilva rinnova quello più complessivo del tessuto industriale nel nostro Paese, in particolare quello composto dalle ultime multinazionali rimaste. Il loro disimpegno, oltre a corrispondere ad un crollo dei posti di lavoro, equivale ad una riduzione dei flussi di saperi, di tecnologia, di competenze, di aperture, di scambi con l’estero.

Sono ben 160 le grandi aziende ufficialmente attanagliate da una crisi in attesa di soluzione, molte altre sono a rischio chiusura, altre ancora stanno ridimensionando la produzione. Una realtà di cui, purtroppo, si parla poco, salvo in occasione delle manifestazioni dei lavoratori, come nei casi Whirlpool, Mercatone Uno o Pernigotti. Del giugno scorso la decisione della multinazionale olandese Unilever di spostare la produzione del dado Knorr da Sanguinetto, in provincia di Verona, in Portogallo.

Il problema di fondo è che l’Italia, da anni, non ha più un piano industriale strutturato, una classe politica all’altezza e i provvedimenti spot delle ultime Finanziarie non hanno certo affrontato radicalmente le tante criticità del nostro tessuto industriale a tutti i livelli. Non solo. Il nostro Paese, da anni, non attira più investimenti industriali (in particolare da fondi di private equity e dalle grandi società industriali) e tanti nostri “gioielli” si sono ormai trasferiti all’estero, come il più importante e simbolico, la Fca (ex Fiat), oggi con sede legale ad Amsterdam e tasse pagate a Londra. Se aggiungiamo a ciò l’eterno “pasticcio Alitalia, azienda che ha bruciato 9,2 miliardi in 45 anni di vita, il quadro è completo.

La crisi delle nostre industrie, in realtà, ha radici ormai lontane. C’è innanzitutto la loro caratterizzazione strutturale estremamente parcellizzata (per lo più piccolissime aziende). A ciò si aggiungono i pochi investimenti nell’innovazione e nell’adeguamento strutturale, la poca produttività italiana, la concorrenza feroce, lo scarso appeal dei territori italiani per gli investimenti internazionali a causa di tasse elevate, l’asfissiante burocrazia, l’esteso malaffare, l’arretratezza del sistema bancario, una giustizia da terzo mondo. I dati Istat aggiungono a ciò il crollo dei flussi di know-how in entrata e in uscita, segno di un Paese dove la conoscenza tecno-industriale spendibile a livello internazionale è sempre più merce rara. Vanno aggiunti anche gli scarsi fondi destinati alla ricerca e l’arretratezza qualitativa media degli atenei italiani.

A ciò occorre associare la difficoltà complessiva del mercato globale, tra dazi, nuovi sovranismi, disinvestimenti

(Domenico Mamone)

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