Il “molisano” Lotito tra sagre e pastori

I romanisti più scaltri non si possono lasciare sfuggire la ghiotta occasione. L’animatore della “parrocchia” calcistica  avversaria, il dottor Lotito, tra un mese potrebbe ottenere l’appellativo di “senatore”. Merito degli instancabili talent scout del centrodestra berlusconiano, abili nel portare in parlamento risorse umane in grado di onorare al meglio la politica italiana. E calarle dall’alto in territori ridotti da anni alla stregua del colonialismo: Lotito non è il primo “estraneo” ad utilizzare il Molise per raggiungere il Senato. Prima di lui, nientemeno che lo stesso Silvio Berlusconi, improvvisamente affascinato dal Molise, soprattutto per lasciare liberi altri collegi. La più piccola Regione del Mezzogiorno è utile soprattutto per queste operazioni, che finiscono per rafforzarne l’irrilevanza, oltre che l’oscurantismo mediatico e culturale.

Naturalmente buon per Lotito. Per il suo inesauribile orgoglio. E per il suo portafoglio. Buon anche per Max Giusti, che potrà implementarne l’efficace imitazione del presidente laziale con nuovo materiale, ideale anche per la satira.

Meno bene per il Molise e per molti molisani, che oltre a soffrire di un irrefrenabile dissanguamento migratorio (i residenti-resistenti ridotti a poco più di 280mila) e di una crisi economica e sociale drammatica, non possono nemmeno aspirare a farsi pienamente rappresentare a Roma da corregionali esperti dei problemi del territorio perché vissuti quotidianamente. E dal momento che a protestare sono davvero pochi, evidentemente a molti – privi di aspirazioni o coscienti dei propri limiti intellettuali e comportamentali – va bene la tranquilla e residuale cura del proprio “orticello” feudale.

Ma dove non possono – o non vogliono – i molisani, possono i romanisti. Perché ad “inzaccherare” questa imminente promozione elettorale – via Campobasso e dintorni – nella massima serie della politica “all’italiana” per il numero uno della Lazio potrebbe concorrere proprio “la lettura” dall’esterno del territorio d’elezione: il Molise, appunto. Perché lascerà certamente un segno indelebile nelle variopinte contese lessicali sotto al Cupolone. Un po’ come quel vulnus – il latino è lingua cara al presidente-imprenditore – rimasto nell’araldica biancoceleste con gli spareggi del 1987 per non finire nell’ignominia della serie C. Un inferno evitato dai laziali grazie ad un solo gol, firmato da Poli su assist di Piscedda, proprio ai danni del povero Campobasso. Ma per i tifosi romanisti la macchia resta. A voglia se resta.

La questione centrale, non di poco conto, è che nella Capitale, dove il calcio è la prima fede, l’argomento principe delle dispute da “Bar Sport” tra giallorossi e biancazzurri è la purezza della romanità.

I laziali da sempre rivendicano la nascita della loro squadra nella centralissima piazza della Libertà. E sbandierano l’anzianità, in quanto il parto è avvenuto nel 1900, cioè 27 anni prima dei cugini giallorossi. Ma i romanisti, oltre a domandarsi perché la squadra nata per prima nella Capitale non abbia scelto la denominazione “Roma”, ma quella della regione, collegano ciò ad un termine immortale: “burinaggine”. Perché chi non è nato all’interno delle tre Mura imperiali, aggiornate nel tempo con il Raccordo anulare, già rientra in questa categoria dagli accenti improponibili e dalle abitudini agresti. Metropoli contro campagna. Sebbene Cincinnato avrebbe dovuto insegnare qualcosa.

Se i territori compresi in queste zone da sfottò sono soprattutto quelli del Lazio, Ciociaria e Sabina in primis, anche Abruzzo e Molise – con la massiccia emigrazione degli abitanti a Roma nel dopoguerra e la loro scelta di fede calcistica prevalentemente laziale (‘a Lazzie) – hanno concorso a tale derisione.

Così la campagna elettorale di Lotito in Molise, “la regione che non esiste” (un po’ come la Lazio per i romanisti) viene vista quanto di più agevole e naturale possa esistere.

Lo si immagina a tutte le sagre locali, da Roccapipirozzi a Pietracupa, da Ceppagna a Vinchiaturo, ogni piatto di sagne e fesciuoli accompagnato dalla speranza di un voto. O tra i pastori di Capracotta e Frosolone, gli ultimi a compiere la transumanza a piedi (con una resistenza che tutti i super pagati giocatori della Lazio si sognano), pronti ad offuscargli il latino con ben altre desinenze tronche. O interessato ad apprendere l’arte del formaggio a Carovilli o a Vastogirardi, con le manone immerse nel latte appena munto per formare una “stracciata” tipica dell’Alto Molise. Ogni manciata di voti, un chilo di panza in più.

Lotito nell’ospitale e semplice Molise più che senatore diventa Re. Gli basterà solcare a piedi il corso di qualsiasi paese per vedere porte che si aprono e piatti di salumi e di formaggi offerti al “potente” di turno. Perché gli onorevoli passano, ma molti molisani non cambiano. Purtroppo. E si accontentano, sempre. Finché i figli non sono costretti a fare le valigie. Sarà davvero il neomolisano Lotito ad invertire il trend nella sua nuova regione di adozione?

Peccato che la sagra delle cipolle di Isernia sia a fine giugno, altrimenti sarebbe stata un’ottima occasione di marketing elettorale per il futuro senatore “molisano”. E con le cipolle, si sa, non ci resta che piangere.