La condizione della donna in Molise

In un recente articolo mi sono occupato del maschilismo, del modo in cui si esprime nella società e dei disastri creati nella storia da tale idea concettuale.

I “Giovani del Gigante” di Duronia (Campobasso) mi hanno successivamente invitato a relazionare a una giornata contro la violenza sulle donne insieme alla psicologa dottoressa Desiree Mancinone.

Proseguendo la riflessione ho fermato allora l’attenzione sul fenomeno in Molise iniziando a chiedermi quale idea abbiamo dello stesso sul nostro territorio nel passato, quali cambiamenti riusciamo a vedere in merito nel tempo e cosa possiamo fare per affermare la parità di genere nella società.

La condizione femminile nella nostra regione fino alla metà del secolo scorso non ha mai avuto livelli di omogeneità su tutto il territorio, diversa com’era già ad esempio tra una città e un piccolo paese, ma nell’area del Molise centrale e alto la donna in un’economia prevalentemente agricola era dedita all’educazione dei figli, al lavoro domestico, molto faticoso senza gli attuali elettrodomestici, a quello nei campi, come pure ad accudire i pochi animali domestici di cui si disponeva.

Soprattutto nelle famiglie patriarcali allargate era prima sottomessa all’autorità paterna e successivamente a quella del marito.

Il sistema di successione in linea patrilineare privilegiava palesemente i figli maschi e in particolare il primogenito nella distribuzione dell’eredità.

Nella famiglia non destava entusiasmo la nascita di figlie femmine, come recita il detto “mala nottata e figlia femmina” che un tempo era molto diffuso, nell’errata convinzione che l’attività nei campi avesse bisogno di maschi a garanzia di “braccia forti”, come si amava dire, dimenticando il grosso apporto delle donne al lavoro agricolo in ogni momento, ma in particolar modo nel periodo della grande emigrazione dopo la seconda guerra mondiale quando i mariti lasciavano i nostri paesi e le donne assumevano il ruolo di coordinamento e di gestione totale del nucleo familiare e dell’attività economica.

Nella quasi totale omertà delle comunità molte in passato erano le vessazioni subite dalle mogli da parte di mariti convinti di avere delle stesse la proprietà a livello fisico, sessuale, economico e perfino psicologico.

Le solitudini del periodo migratorio determinavano talora tradimenti nella fedeltà coniugale che erano giustificati per i mariti ma mai per le mogli.

Fino agli anni sessanta la scolarità femminile era ai minimi e si fermava nel migliore dei casi alla frequenza della quinta classe elementare.

Avere un figlio fuori dal matrimonio era assolutamente infamante per una donna ma non per un uomo.

I ruoli sociali più ambiti erano riservati agli uomini e la dimostrazione si trova ad esempio quando si va a cercare il numero di donne elette nel Consiglio regionale, al Parlamento, negli enti locali oppure poste come dirigenti negli organismi pubblici e privati.

Della discriminazione di genere in tale periodo mi sono occupato nella mia antologia di racconti “Storie di vita” e nei miei due romanzi “Il senso dei giorni” e “Frammenti di espressioni esistenziali” in cui ne descrivo gli aspetti nel Molise centrale soprattutto narrando le esperienze esistenziali di Laura, Incoronata, Teresa e Giulia.

Attraverso queste figure femminili racconto episodi reali di condivisione esistenziale talora egalitaria e serena mentre in altri casi contrastata, violenta e perfino tragica.

In “Cecità” poi, un romanzo eccezionale di Josè Saramago del 1995, si trova un’analisi metaforica davvero mirabile sulle strutture di potere della nostra società, le discriminazioni in essa persistenti, l’indifferenza per gli altri e la mancanza assoluta di solidarietà.

In parte il suffragio femminile nel 1946, la legge sull’obbligo della frequenza della scuola media unica nel 1962 e lo sviluppo economico a partire dal 1970 rappresentano uno spartiacque per un cambiamento sia pure parziale della condizione della donna in tutta Italia, ma anche in Molise perché ella finalmente prende coscienza della sua discriminazione nei diritti a partire dalla libertà, dal lavoro e dall’eguaglianza di opportunità nelle scelte di vita.

Il suo inserimento nel mondo del lavoro trova ancora problemi nei dati statistici, nei ruoli cui riesce ad accedere, nel trattamento contrattuale, nelle retribuzioni decisamente inferiori rispetto all’uomo a parità di mansioni e nella carenza di servizi per il supporto alla maternità.

La rilevazione statistica sull’occupazione femminile, venti volte in Italia inferiore a quella maschile, ci dice oggi con chiarezza che essa riguarda attività tra le meno pagate pur richiedendo un impegno fisico e psicologico non indifferente.

Qualcuno scrive che nell’ultimo anno questa sarebbe trainante dimenticando che si tratta prevalentemente di lavoro precario.

Le donne molisane che si sono o si stanno realizzando a livelli elevati sul piano culturale e professionale vivono in gran parte fuori della regione.

È amaro costatarlo, ma è la verità perché da noi purtroppo l’inserimento nel mondo del lavoro ha ancora canali diversi dalle selezioni fondate sul merito.

La condizione della donna oggi è sicuramente migliorata per tanti aspetti, ma persistono forme di pregiudizio maschilista ancora radicate nella società, nelle religioni e negli stessi partiti politici che le impediscono un inserimento pieno nella società a livello culturale, politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale e dirigenziale.

Un dato positivo è quello derivante dal 7° censimento generale dell’agricoltura nel quale leggiamo che la percentuale più alta di donne imprenditrici del settore è proprio quella del Molise con il 44%.

Al contrario a livello politico e amministrativo la prima elezione di donne nella massima assemblea legislativa locale si ha solo nel 1995 con Angiolina Fusco Perrella, Maria Angela Astore, Isabella Beccia e Sabrina De Camillis.

L’attuale legge elettorale della nostra regione prevede che la rappresentanza di genere debba essere almeno del 40% nelle liste dei candidati, dobbiamo tuttavia rimarcare che nell’attuale consiglio regionale di ventuno membri abbiamo una presenza di sole tre donne delle quali neppure l’unica eletta in maggioranza ha incarichi in giunta.

Ci sono Comuni che non hanno mai avuto per sindaco o come consigliere una donna.

Dei 136 sindaci attuali solo 15 nella nostra regione sono donne.

In Parlamento fin qui e solo dal 2001 sono state elette una senatrice tra l’altro siciliana e cinque deputate molisane.

È del tutto evidente che le leggi a favore della parità politica di genere riguardano le pari opportunità di candidatura ma non di rappresentanza nelle istituzioni anche perché, dopo aver blaterato per anni di primarie e democrazia partecipata, sono ancora le segreterie dei partiti e non i cittadini a designare i nomi nelle liste elettorali.

Nel Molise non mancano ancora purtroppo forme di violenza nei confronti della donna come la mercificazione del suo corpo nella prostituzione o nella pubblicità; sono presenti anche lo Stalking, le minacce, le percosse e perfino il femminicidio come abbiamo appreso sistematicamente dalle notizie di cronaca.

È chiaro che in questo caso non si entra in una relazione d’incontro rispettoso e di condivisione del piacere, dell’amore e della felicità, ma le forme di convivenza vengono solo strumentalizzate a fini egocentrici.

Non dimentichiamo poi la difficile condizione economica, sociale e umana delle tante donne immigrate che vivono anche nei nostri piccoli paesi e sulla quale dovremmo fermarci in analisi approfondite per porre in evidenza i profili di sfruttamento nei lavori talora esercitati anche in nero.

Le colpe di tale situazione sono sicuramente in quella che io ho definito subcultura maschilista, ma, come sottolinea Pierpaolo Donati nel suo saggio “Alterità” edito da Città Nuova, la crisi della famiglia e l’individualismo esasperato, alimentati tra l’altro dall’isolamento nella realtà virtuale, ci dicono che un’altra causa fondamentale del fenomeno va ricercata nella caduta dei rapporti relazionali ad ogni livello che ormai vengono vissuti unicamente in funzione di interessi egoistici.

Se i rapporti interpersonali e familiari si riducono al minimo o avvengono addirittura solo on line con la pressocché assoluta assenza di dialogo e di emozioni affettive, è chiaro che dobbiamo preoccuparci anche in realtà come le nostre dove un tempo in ogni forma di legame il dialogo reale era la norma.

Dunque, affermandolo anche da docente, credo che abbiamo l’impellente necessità di tornare ad educare alle relazioni e all’affettività attraverso percorsi didattici interdisciplinari evitando tuttavia la pedanteria pedagogica e ogni rischio di propaganda ideologica.

Non mi pare orientato in tale direzione il piano di Valditara per focus facoltativi e autorizzati dai genitori nella sola scuola secondaria di secondo grado di trenta ore annuali in orario extracurricolare sul tema delle relazioni coordinati da insegnanti e supportati da esperti quali psicologi o sociologi.

Formare nella famiglia, nella scuola e nelle altre agenzie educative cittadini con un forte spirito critico significa renderli liberi da ogni forma di potere irrazionale che, come sostiene giustamente Paolo Crepet, per i giovani non risiede solo nel patriarcato, ma anche in quella che lui definisce “figliocrazia” alla quale aggiungerei la “socialcrazia” e l’indifferenza nichilista.

Qualsiasi vita di relazione non può dare certezze di vita serena se non è regolata da principi etici chiari e valori forti, sicuramente condivisi, ma da fondare e rispettare con onestà.

Quelli da affermare rispetto ai rapporti interpersonali sono la sincerità e il rispetto dell’altro anche quando si vivono situazioni di conflitto.

Il superamento dell’attuale condizione umana e sociale della donna richiede certamente un impegno assiduo di tutti a livello culturale e politico per giungere anche da noi in questo lembo di piccolo territorio del Molise a quella pari dignità di genere che purtroppo ancora non è stata realizzata.

Le religioni non hanno avuto fin qui un ruolo accettabile nella liberazione della donna dalle vessazioni maschiliste come dimostrano purtroppo episodi anche recenti quali quello di Saman Abbas.

Credo che anche tanti che si definiscono cristiani, rinchiudendosi nel limite angusto del patriarcato rigido e nell’incapacità di un rapporto di rispetto della dignità della donna, siano ancora arroccati alle definizioni dottrinali e non riescano a cogliere in Gesù di Nazareth la figura stupenda di quel figlio di Dio che è venuto al mondo come liberatore della condizione femminile subalterna esistente allora come oggi.

Una tale analisi dovrebbe portarci ad alcuni obiettivi da raggiungere.

Occorre anzitutto una rivoluzione culturale che nelle scuole elimini gli stereotipi di genere nei libri di testo e nell’attività didattica creando una ricerca culturale più libera e plurale ma anche nuove relazioni nelle attività sociali, religiose, artistiche e sportive.

In tale direzione il ruolo dello psicologo è sicuramente fondamentale dentro e fuori dalla rete scolastica per prevenire e impedire episodi di violenza e di negazione della dignità dell’altro, ma soprattutto per definire forme di convivenza innovative.

Tale cambiamento deve necessariamente portare a non limitare l’informazione solo a eventi negativi con una descrizione talora ossessiva e inutile sui particolari perché ciò può condurre l’opinione pubblica a pensare che la società non abbia né anticorpi per il male e neppure radici di positività e di bene.

Perché dunque non riflettere sull’utilità educativa e sociale di esempi di vita indirizzati alla responsabilità, all’onestà e al benessere collettivo?

Denunciare la violenza fisica o psicologica subita è certo il primo atto di chi vuole davvero liberarsene, ma non è sufficiente.

Serve una legislazione che permetta alle donne di coordinare l’attività professionale con gli impegni familiari ed educativi che devono essere equamente suddivisi tra i coniugi senza i pregiudizi legati a ruoli diversi e alternativi.

La creazione d’infrastrutture sociali e culturali per liberare il tempo non lavorativo nelle comunità o per creare riflessione e confronto sui problemi comuni da risolvere può essere di grande rilievo.

L’aumento sul territorio dell’attuale numero dei centri antiviolenza e un loro lavoro più capillare sicuramente poi possono aiutare nel superamento di forme di prepotenza e discriminazione nei confronti delle donne.

Il lavoro attento e continuo da tenere da parte di tutti è comunque quello di una rivendicazione della pari dignità non sul piano unicamente concettuale e dunque ancora teorico, come si è fatto finora con gli specchietti per le allodole della festa della donna o delle quote rose, ma dal punto di vista pratico che veda cambiamenti reali di carattere strutturale, legislativo, economico e sociale.

(Umberto Berardo)

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