La Roma cambia, la Roma resta?

Dunque, José Mourinho ha fatto le valigie da Trigoria. Era sbarcato nella Capitale giallorossa accolto come il nono Re di Roma (l’ottavo, su quella sponda del Tevere, resta il Pupone). Il notevole “affresco” che lo ritraeva su una Vespa, icona di queste due stagioni e mezza, è stato a lungo consacrato dai tifosi e dalla stampa sportiva.

Dalla sua parte, per il quasi 61 enne (26 gennaio) allenatore portoghese, aver riportato la gente allo stadio. L’Olimpico sold out è stata una costante. Ma anche la conquista di un trofeo per arricchire una collezione non proprio da squadra blasonata, la Conference League, che per quanto modesto – la Fiorentina ha rischiato di vincerlo l’anno seguente – ha comunque rotto la lunga astinenza da “zero tituli” e “mai ‘na gioia”. Sfumata e amara anche la finale di Champions dello scorso anno, il netto rigore non assegnato ai giallorossi lascia ancora l’amaro in bocca.

Il Mou, comunque, ha stregato buona parte di quella tifoseria che adora “il calcio oltre il calcio”. Perché il Mou in avanti con gli anni, dal gioco troppo spesso vecchio e prevedibile, ha perlomeno rappresentato “lo spettacolo nello spettacolo”, fatto di posture provocanti, atteggiamenti indisponenti, parole spesso irritanti per la classe arbitrale, insomma quel repertorio che a Roma è abbastanza usuale e ancestrale nell’etere. Ecco perché, per molti romanisti, lo Special One è stato “uno di noi”.

Di contro, però, il bel calcio è diventato non-calcio. Le medie di vittorie con la Roma sono scese stagione dopo stagione, dal 52,7 del primo anno, al 47,2 dell’anno scorso fino al 46,4 di quest’anno. Una parabola discendente già evidenziatasi nell’ultimo decennio: l’ultimo scudetto con il Celsea nel 2015 per poi lasciare la squadra in caduta libera dopo qualche mese, male anche con il Manchester, peggio ancora con il Tottenham, media di vittorie crollata al 51,1 rispetto al 71,9 della stratosferica Inter. Poi la Roma, anzi, la Rometta. E finché la squadra capitolina è arrivata sesta nei primi due campionati (nell’ultimo quattro posizioni dietro alla Lazio), nonostante qualche figuraccia internazionale, il magro bottino dei derby, l’addio alla coppia Italia per opera della Cremonese e le batoste con “le grandi” del campionato, la maggior parte dei tifosi ha quasi digerito tutto. Ma scivolare al nono posto, esprimere un gioco a dir poco imbarazzante e, quasi per contrappeso, aumentare le esternazioni e la raccolta di cartellini rossi è diventato troppo per la stessa immagine della Roma.

Certo, c’è da capire ora quanto valga effettivamente questa squadra. Perché certi giocatori siano diventati l’ombra di sé stessi. Se le colpe possano ricadere tutte sull’allenatore o se anche la presidenza americana di Dan e Ryan Friedkin vada messa sul banco degli imputati per un ruolo inconsistente e per una scelta che a metà campionato appare perlomeno rischiosa.

A fornire le prime risposte sarà Daniele De Rossi, nuovo responsabile tecnico della prima squadra fino al 30 giugno 2024. “Ddr” ha fatto parte dello staff tecnico dell’Italia all’Europeo, terminato con la vittoria degli azzurri a Wembley. Ma l’esperienza come allenatore della Spal nella scorsa stagione, in Serie B, è finita con l’esonero dopo appena 17 partite.

Di certo De Rossi è una bandiera della Roma, diciotto anni con la maglia giallorossa, oltre 600 presenze, tanti bei gol. Ha vinto per due volte la Coppa Italia nel 2007 e nel 2008 e per una volta la Supercoppa nel 2007. Ma riuscirà nel miracolo di rivitalizzare una squadra che sembra un malato irreversibile?

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