L’escalation di questi ultimi giorni delle sanguinose tensioni in Medio Oriente ricorda quelle onde concentriche conseguenti al lancio di una pietra nelle acque del mare o di un lago. Sperando che non ricordino quelle pietre che provocano invece valanghe.
L’atroce attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, che ha privato della vita circa 1.200 persone e ha raccolto oltre duecento ostaggi, ha generato, quale primo atto sanguinario di ritorsione, l’altrettanto efferata e prevedibile azione dell’esercito israeliano a Gaza, tuttora in corso.
Oltre ad indurre centinaia di migliaia di palestinesi alla fuga dalle proprie abitazioni, in particolare verso il Nord della “striscia”, la rappresaglia di Israele ha già provocato quasi 25mila morti tra i palestinesi (quasi la metà bambini), oltre a poco meno di ottomila dispersi, probabilmente rimasti senza vita sotto l’infinito tappeto di macerie. A centinaia di migliaia di persone è di fatto privato l’accesso all’acqua, al cibo, ai medicinali.
Su richiesta del Sudafrica, che già nel primo post-apartheid s’era fatto carico della “causa palestinese” (Mandla Mandela, nipote del defunto presidente, ha ricordato come il nonno abbia considerato la lotta palestinese la più grande questione morale del nostro tempo), la corte internazionale dell’Aja dovrà valutare se la rivalsa di Israele si possa configurare legalmente come “genocidio”.
La vicenda, drammatica, presenta aspetti anche paradossali. Infatti la parola “genocidio” è stata coniata nel 1944 davanti al congresso Usa proprio da un avvocato e pubblico ministero ebreo, il polacco Raphael Lemkin (1900-1959), per descrivere le politiche naziste di sistematico sterminio. Il tribunale militare internazionale di Norimberga incluse proprio la parola “genocidio” nell’atto d’accusa contro i nazisti. Da allora con tale termine si indica la metodica distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Non a caso viene tuttora utilizzato anche per indicare lo sterminio del 1915 del popolo armeno da parte dei turchi.
L’assurdità a cui ci chiama la storia è che sia proprio il popolo ebreo ad essere messo oggi sul banco degli imputati con l’accusa di genocidio dei palestinesi. Anche perché Israele è stato uno dei 152 Paesi che hanno ratificato la convenzione internazionale sul genocidio del 1948, entrata in vigore il 12 gennaio 1951.
Quale che sia la decisione del tribunale, si assisterà all’ulteriore benzina buttata sul fuoco: il mancato riconoscimento del genocidio, molto probabile, alimenterà presumibilmente gli atti antiebraici che già si stanno moltiplicando in tutta Europa, mentre l’eventuale riconoscimento del presunto sterminio etnico accentuerà sia lo sdegno dell’opinione pubblica araba e occidentale, ma anche quello dell’ala ebraica più fondamentalista.
Del resto, anche questa serie di udienze all’Aja, con il corollario di manifestanti anti-palestinesi e anti-israeliani davanti al tribunale, ognuno con le proprie granitiche ragioni, conferma come la contrapposizione sia profonda e totale da parte dell’opinione pubblica e l’odio semini altro odio, se è vero che le appendici del conflitto si materializzano anche a migliaia di chilometri, dai bombardamenti britannici e statunitensi contro gli Houthi nello Yemen, per salvaguardare il traffico commerciale nel mar Rosso, dove transitano soprattutto milioni di barili di petrolio al giorno, alle minacce filo-iraniane ma anche turche contro Israele.
In tutto questo accanimento senza fine, che sembra estendere i suoi confini in modo inarrestabile in territori sempre più vasti, si levano nobili ma isolati gli appelli alla pace del Papa e i richiami all’immediato cessato il fuoco per motivi umanitari e di diritti umani da parte dell’Onu. La strada, per logica, dovrebbe essere questa. Ma evidentemente la memoria dello sfascio provocato dall’ultimo conflitto mondiale è corta in troppe persone.
(Domenico Mamone)