Lavoro, quegli “strani” numeri dei Neet

Sul quotidiano Avvenire del 2 aprile 2024, Michele Tiraboschi e Francesco Seghezzi, due qualificati analisti del mondo del lavoro, conseguentemente alla diffusione dei nuovi dati dell’Istat s’interrogano sul fenomeno dei Neet – cioè dei ragazzi tra i 15 e i 34 anni che non studiano né lavorano – che in cinque anni (2018-2023) si sarebbe assottigliato di quasi un milione di persone, passando da 3 a 2,1 milioni.

Gli autori del pezzo collegano la buona notizia fondamentalmente “alla ripresa dell’economia che ha riattivato la domanda di lavoro anche a vantaggio dei più giovani”.

In realtà i dati, specie quelli sul lavoro, vanno sempre presi con le molle. E’ noto come sia sufficiente un’ora di lavoro a settimana per far fuoriuscire un giovane – almeno a livello di statistica – dalla palude dei Neet.

I due esperti non mettono sul tappeto due dati che potrebbero avere un’incidenza su questo calo: i “cervelli in fuga”, ossia quel milione di italiani – per lo più giovani e laureati – che nell’ultimo decennio ha lasciato il nostro Paese in cerca di mondi del lavoro più stimolanti, garantiti e meritocratici. Se le cifre ufficiali “parlano” di poco meno di 400mila persone, in realtà una studio della Fondazione NordEst, dopo un approfondimento nel Regno Unito post Brexit, invita a moltiplicare almeno per tre quel numero.

Un secondo aspetto è dato dall’inverno demografico: la popolazione italiana è in calo (400mila persone in meno nel 2021, poi numero attenuato dall’immigrazione) ed oggi siamo meno di 59 milioni, con la crescita esponenziale del numero di anziani a fronte del netto calo dei giovani: gli oltre quattro milioni e mezzo di ultraottantenni sono ormai più dei bambini sotto i dieci anni.

I due autori indicano nell’apprendistato un proficuo strumento per l’inserimento di un giovane in un’azienda. Siamo d’accordo sugli strumenti flessibili di inserimento. Ma tra assunzione e sfruttamento ce ne passa. Perché il problema è che l’apprendistato viene spesso indicato come meta a chi viene proposto il classico tirocinio di sei mesi che le aziende, specie quelle della grande distribuzione, utilizzano a iosa. Salvo poi, dopo l’apprendistato, dare spesso il benservito all’utile “manovalanza a tempo” (che a loro costa meno di 300 euro al mese) e procedere con la sostituzione di un nuovo tirocinante.

Forse più che le statistiche sarebbe utile svolgere qualche inchiesta nei luoghi di lavoro per rendersi conto di quanti ragazzi (futuri disoccupati) sono lì 40 ore a settimana per pochi spiccioli.

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