L’AQUILA – Piazza d’Armi è un vasto spiazzo proprio all’uscita dell’autostrada. In genere era una zona tranquilla. Un po’ squallida, diciamocelo pure. Ora è il centro pulsante della città, con la grande tendopoli e i mezzi di soccorso e privati che girano vorticosamente intorno a questo spazio.
Frotte di persone attendono i vigili per la verifica di agibilità delle case. Sentiamo frammenti di discorsi, tutti uguali. Vogliono tornare nelle proprie case il più presto possibile.
Sono state installate postazioni mobili delle Poste e di banche. Il parrucchiere di fronte alla tendopoli non s’è perso d’animo: adesso il suo studio è all’interno di un gazebo. Anche questo è un segnale. Non arrendersi.
La parte della città che percorriamo, come tutta la periferia, è accessibile. Ma vorremmo andare in centro, nella città che non si può vedere, nella città fantasma. Serve un permesso speciale, ci dicono. Ci avviamo comunque. Passiamo per via Strinella, e ci arrampichiamo su, tramite stradine secondarie, note solo a noi aquilani.
Ci sentiamo a disagio. Questa non è L’Aquila, questa è la sua ricostruzione in uno di quei film catastrofici, dove il vento sibila e gli unici rumori sono dei cani randagi e degli uccelli.
Stiamo lì a parlare per un bel po’ di tempo: in ogni caso da quell’avamposto sono visibili i Portici Nuovi, la scalinata e la facciata di San Bernardino. Ma non li guardiamo a lungo, non li possiamo guardare. Sono senza vita, sono terremotati anche loro.
I discorsi si fanno più personali, più privati. E’ un peccato non avere tempo, non avere neanche la possibilità di sederci da qualche parte, lì, e continuare a riflettere su quello che è e che sarà. Non si può, perché lì non c’è più nulla.
Saliamo su per la strada che fiancheggia lo stadio. Gli impianti sportivi – piscina appena ristrutturata con circolo tennis – tutto finito. La città che non si può vedere perché non c’è più.
Arriviamo quasi alla Fontana Luminosa. Cercano di fermarci. Facciamo finta di niente e ci avviciniamo dall’altra parte. Arriviamo sotto le statue e guardiamo il Corso. Vuoto, nulla anche qui. Nulla da vedere…
Ci avviamo verso il Castello. Passiamo attraverso il Parco. Da qui, pensiamo, sarebbe semplicissimo infilarsi in un vicoletto e raggiungere San Bernardino. Poi rammentiamo il colloquio con il finanziere, la pericolosità di quei pertugi medievali dove i tetti sono scivolati. E allora desistiamo.
Ci avviamo verso il ponte e l’entrata. Il tetto è crollato sul museo d’arte contemporanea e i vigili stanno facendo un’operazione di recupero e messa in sicurezza.
Lì dentro c’erano opere d’arte di grande valore e lo scheletro del Mammuth. Chissà se esiste ancora. Ma non si può vedere. Nessuno sa come sia messo dentro. Non si può ancora accedere.
Restiamo lì per una mezz’oretta. Poi decidiamo di fare un salto a Santa Maria di Collemaggio, lì dove c’è un’altra tendopoli.
La chiesa è inagibile, ma la facciata, per fortuna, è rimasta in piedi. La tendopoli è piccola ma decente. Forse meno dispersiva di quella in piazza D’Armi.
Da lì possiamo guardare la zona di via XX Settembre: le case sembrano in piedi, ma sappiamo che per terra c’è un faglia larga più di un metro. Il terremoto inganna i sensi. Quello che vedi non è quello che è. E comunque noi non possiamo vedere…
Sta facendosi sera e cominciamo ad avvertire la stanchezza. Ci sentiamo vuoti, senza passato – è andato distrutto in 20 secondi – e con un futuro ridotto a “cosa facciamo stasera”. Il terremoto ti stravolge fuori e dentro: cambiano i parametri con cui si misurano le vicende della vita. Cambiano le priorità e cambi anche tu, da un giorno all’altro. Giorno dopo giorno. I punti di riferimento sono altri, ormai, per chi è lì e per chi lì ci è nato e cresciuto.
Ma in una situazione come questa siamo contenti di avere un futuro che non si può vedere. Il nostro futuro è molto prossimo e molto focalizzato. Come quello degli aquilani. Poche idee ma chiare. Tanto il resto non si può vedere…
(Maria Piera D’Alessandro)
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