Narratori sinistrati



Nell’odierna sinistra si snoda un fascinoso edonismo lessicale – contraltare ad un infinito rosario di amarezze – dove uno dei più abusati vessilli è il termine “narrazione”. Racchiude indubbiamente una seduzione ancestrale e fortemente identitaria: contenitore di aggregazioni, di conoscenze, di esperienze, di lotte, di storie. Di un patrimonio di valori originari – in verità talvolta annacquati o dissacrati nel nome del “modernismo” – emblemi delle “abusate” basi da cui la sinistra, non soltanto quella massimalista, potrebbe (o vorrebbe) ripartire.
Il termine, però, è anche portatore di una paradigmatica contraddizione: come si armonizza la “narrazione” – e la sua carica onirica – con una rotta che la sinistra deve ancorare, oggi più che mai, al realismo dei problemi quotidiani per recuperare il rapporto con il suo popolo? Come si concilia con una direttrice da proiettare, più che alle nostalgie del passato o alle geometrie del presente, soprattutto alle speranze per un futuro quanto mai complesso?
Nichi Vendola, incontrastato e tenace guru dell’ammaliante edonismo lessicale, sembra aver accettato la sfida. Sta sciogliendo il nodo e attenuando tale disarmonia temporale con una semplice ricetta: vivificare il suggestivo “racconto” attraverso la produzione di fatti e di successi territoriali, frutto di una pratica amministrativa realizzata più fuori che dentro le formazioni politiche. Quindi aperta a quella società civile, che il governatore pugliese giudica – non a torto – “più ricca ed energica di quanto siano oggi le strutture dei partiti”.
La concretezza delle sue “fabbriche” o dei suoi laboratori sociali costituiscono, pertanto, il sostentamento alla “riconquista” di quella Politica con la “P” maiuscola che, in contrapposizione alla precarizzazione e alla desertificazione dell’esistente o al rischio che la crisi economica possa divenire collasso della democrazia (come ben sottolinea Richard Posner), ha un’idea di società basata su una proposta organica e su un profilo culturale forte in termini di realizzazione dei principi costituzionali, di difesa del lavoro e dei diritti sociali, di riconversione ecologica dell’economia e di sostenibilità ambientale. Di giustizia, di socialità, di cooperazione.
La salvaguardia e il rilancio dei beni comuni (ad iniziare dalla battaglia contro la privatizzazione dell’acqua), la diffusione delle energie alternative, l’impulso alla raccolta differenziata dei rifiuti, la sfida al sommerso, al malaffare e alla criminalità organizzata incarnano l’attuazione di quella “narrazione”, l’alimentazione della “grande speranza collettiva”, per citare lo stesso Vendola, il dare “un senso a questa storia”, per usare il poco attuato slogan che Pierluigi Bersani ha un po’ frettolosamente preso a prestito da Vasco Rossi. Insomma, costituiscono non solo nobili tematiche, ma soprattutto “fatti” che pavimentano ciò che Massimiliano Smeriglio, assessore al lavoro della Provincia di Roma, individua in quel vero e proprio “processo di ricostruzione” sul “peggio di così…”. Affinché la sinistra possa essere finalmente definita sulla base non solo di quello che propone, ma di ciò che fa.
Certo, le osservazioni di Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, sull’esiguo ruolo del governatore pugliese e della sua esperienza in una logica nazionale – e in una prospettiva di leadership nella sinistra – hanno un fondamento. A ciò si somma il peso di una questione decisamente poco “territoriale” quale il tema dell’immigrazione, intorno al quale la sinistra – schiacciata tra difesa dei diritti e istanze di ordine pubblico – s’è giocata una parte del proprio elettorato. Tema cui una destra abile nell’inseguire le paure sa collegare e “far fruttare” anche l’emergenza sicurezza.
Tuttavia l’esperienza pugliese, opificio delle intuizioni vendoliane, offre insegnamenti anche su un fronte territoriale più ampio. Fa scuola, ad esempio, nel far emergere i reiterati errori di un centrosinistra principale causa delle sue sconfitte. Dove il Partito democratico, in particolare, ha fatto di tutto – ad esempio, con il bis-Boccia – per trasformare nella peggiore delle disfatte la vittoria emblematica in una delle più importanti regioni del Mezzogiorno. Quel Pd, tutto sommato fresco di fondazione (autunno 2007), ma che in due anni ha contribuito a far perdere non solo il governo nazionale, ma sette regioni su quattordici (Friuli nel 2008, Abruzzo e Sardegna nel 2009, Piemonte, Lazio, Campania e Calabria nel 2010) e un numero rilevante di Province e di Comuni (Mantova, ultima smobilitazione). Avvicendando in 24 mesi ben tre segretari – Veltroni, Franceschini e Bersani – e soprattutto una passerella di ricca umanità che include Francesco Rutelli (il “viatico” per Alemanno sindaco della Capitale), finito in quell’oggetto politico sconosciuto che risponde al nome di Api (Alleanza per l’Italia), dove troviamo anche un altro ex-Pd eccellente, quell’onorevole Massimo Calearo, presidente degli industriali di Vicenza ed ex presidente nazionale di Federmeccanica che avrebbe dovuto risollevare le sorti del centrosinistra in Veneto (alle ultime amministrative, con Zaia oltre il 60%, si sono visti i risultati dell’operazione). E ancora Paola Binetti, quella del cilicio, Enzo Carra, forlaniano arrestato in era tangentopoli, e Renzo Lusetti, altro ex democristiano, tutti approdati alla corte dell’Udc di Casini. Ma anche il generale Mauro Del Vecchio, celebre per le sue esternazioni sui gay poco adatti alla naja, o sul nonnismo-soft “educativo” o per il sostegno alla creazione di case di piacere per i soldati impiegati nelle missioni all’estero. Elenco che potrebbe arricchirsi con i “nuovi arrivati”, come la mitica hostess Maruska Piredda che il Pd è riuscito a “strappare” a Di Pietro (sic) e a far eleggere in Liguria (ari-sic).
La “narrazione pugliese”, quindi, fa terribilmente scuola. Ammonisce che non può andare lontano una sinistra senza più anima autenticamente popolare. Con i suoi partiti trasformati in luoghi chiusi, occupati da gruppi ristretti e autoreferenziali, dinamici solo nel dar vita a competizioni esasperate per il posizionamento interno. Verità diventate ormai veri e propri tormentoni, etichette inamovibili che pesano sulla credibilità di una possibile proposta alternativa in questo Paese.
Non è migliore la sinistra vittima di astruse formule aritmetiche di coalizione “aperte a tutte le forze democratiche”, veri e propri “rassemblement delle belle persone” eredi delle logiche che hanno animato le varie Unioni, Ulivi, Alleanze Democratiche rincorrenti il mondo cattolico e la fusione della cultura socialista con quella di matrice cattolico-democratica. Quella, per capirci, di Romano Prodi, l’alfiere di questa via lastricata di buone intenzioni, ma che ha rappresentato, con il suo governo, la più grave calamità del nuovo millennio per il centrosinistra. Il professore, super-recitivo, oggi rilancia – sempre per rimanere in tema – ennesimi progetti di ingegneria organizzativa addirittura su base federalista, con segretari regionali che andrebbero a ricalcare consumate nomenclature.
O ancora la sinistra avvitata nelle alchimie della suggestione ideologica, nelle allettanti aggetivazioni, nel cosmopolitismo che dimentica il territorio, negli scolorimenti per le conquiste di segmenti inconquistabili, nei dibattiti sul bipartitismo o sulla “vocazione maggioritaria” che determinano l’eterno “restare in attesa” di fronte ad un centrodestra ben determinato, pragmatico e attrezzato, vicino al “senso comune” e alla sensibilità popolare, padrone della “rappresentazione della realtà” e della relativa agenda politica: quella dei pressanti proclami di “riforme”, dal federalismo al presidenzialismo, dalla giustizia all’istruzione, fino allo spot dei rifiuti campani o ai palcoscenici del terremoto abruzzese.
L’ultimo collante, però, è il più indicativo dell’infruttifera ottusità: l’insignificante formula dell’antiberlusconismo duro e puro, un po’ dottrinale e un po’ guascone. Scelta perdente in quanto – come osserva lo stesso Vendola – “il berlusconismo oggi costituisce l’autobiografia di una nazione”. Un’Italia “vandeana e cesarista”, per dirla con Fabio Mussi, dove le sudate conquiste storiche si sbriciolano nel primigenio disimpegno che diventa la più comoda concezione di vita.

(Giampiero Castellotti – 19 aprile 2010)

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