Il “Decreto Rilancio”, che tra l’altro utilizza la denominazione dell’iniziativa di sostegno economico promossa e pubblicizzata da settimane da Ubi Banca, mostra il fianco a diverse critiche. Quella che ci sembra più perspicace può essere riassunta così: il decreto, pur garantendo benefica liquidità al sistema, non la subordina a nuovi modelli di sviluppo.
In sostanza, manca di una visione sul futuro.
I “soldi a pioggia” equivalgono più a sistemare una sorta di “toppe”, conseguenti alle istanze delle categorie produttive e quindi alla ricerca del solito consenso, che non ad approfittare di una crisi per orientare società ed apparato produttivo verso i necessari processi di rinnovamento.
Assicurando risorse distribuite su vari rivoli, in modo indiscriminato, si finisce per perpetuare quelle funzioni arcaiche di organizzazione sociale, burocrazia compresa, e quei modelli d’impresa spesso irresponsabili, che in logiche d’espansione globale senza limiti finiscono per deteriorare l’ecosistema ambientale e sociale dei territori, vera risorsa del nostro Paese.
Ad esclusione degli ecobonus, che giustamente finalizzano il rilancio dell’edilizia o di altri settori alla prevenzione dei rischi, alla qualità della vita e al bene comune, per il resto il decreto appare l’ennesima occasione mancata.
Ad esempio: che senso ha finanziare per l’ennesima volta, con ben tre miliardi, quell’azienda lungamente mangiasoldi che è Alitalia? Ancora: perché foraggiare il comparto dei videogiochi, non proprio un esempio educativo? Ed ancora: perché lo Stato italiano, per l’ennesima volta, deve andare incontro a Fca-Fiat (richiesta di 6,5 miliardi come anticipato da Milano Finanza), che ormai ha il quartier generale altrove? Poi, davvero tutti gli oltre quattro milioni di lavoratori autonomi hanno bisogno delle 600 euro, compresi coloro che producono “nero” da anni? E via di questo passo, analizzando tra le pieghe il corposo e spesso incomprensibile documento.
I soldi a pioggia penalizzano proprio chi ha bisogno di risorse non per vivere, ma per sopravvivere. C’è una grande fetta di questo Paese che s’è vista annullare l’unica entrata, quella con il lavoro sommerso. Una scelta spesso obbligata, specie al Sud. E invece i talk show televisivi sono concentrati a parlare di ristoratori e gestori di stabilimenti balneari, di vacanze estive o di possibilità di viaggiare all’estero. Trattandosi di beni spesso voluttuari, sarebbe sufficiente garantire maggiore spazio su suolo pubblico a queste attività, in modo gratuito. Per il resto, leggeri aumenti di prezzo per i servizi farebbero rientrare queste categorie (comunque di privilegiati) più o meno nei fatturati dello scorso anno.
La questione vera è che c’è una pandemia in corso e lo Stato-Pantalone, incolpevole, non può rinnovare un assistenzialismo per tutti. Che poi qualcuno dovrà pagare. Non deve essere questa l’ennesima occasione per fare campagna elettorale con soldi a debito, non a caso tutti i provvedimenti arrivano in netto ritardo a causa delle tensioni interne dovute anche alla difesa di questa o quella categoria.
C’è di più. L’immenso accumulo di nuovo debito è una cambiale per le nuove generazioni. Sarebbe allora opportuno, come contropartita, assicurare loro un mondo migliore, più salubre e inclusivo, in cui il ruolo di imprese ‘rimodulate’ verso la generazione di valore sociale, oltre che economico, appare primario. Il rilancio, potenziale, non può essere solo quantitativo, ma soprattutto etico e armonico, quindi fortemente qualitativo in termini di sostenibilità, responsabilità sociale e culturale, nuove tecnologie, economia circolare, desiderio estetico, forza creativa, interscambio.
Viene in mente la favola del Re Nudo di Andersen, in cui l’illusione di immortalare false certezze ci porta a non accorgerci della necessità di una rigenerazione collettiva.