Il de profundis del Terzo Polo

Il cosiddetto “Terzo Polo” di Carlo Calenda e Matteo Renzi s’è già sbriciolato. Dopo appena otto mesi dall’alleanza nata in campagna elettorale, Azione e Italia Viva hanno rinunciato a formare un partito unico. L’esito nefasto del matrimonio elettorale, prevedibile, ha ragioni chiare: la politica dei personalismi è inconciliabile con un partito unico dove uno dei due leader avrebbe dovuto necessariamente rinunciare allo scettro. Anche perché non si tratta di due guide senza successi alle spalle: Renzi alle elezioni europee del 2014, per quanto lontanissime, portò il Pd, di cui era segretario, al 40,81 per cento dei voti, il miglior risultato in percentuale mai ottenuto dai dem; Calenda alle elezioni amministrative di Roma ha conquistato il 19,8 per cento dei consensi, confermando un rispettabile ruolo da terzo polo dietro sinistra e destra.

Oltre al problema della leadership, un altro elemento di apparente inconciliabilità potrebbe essere rappresentato dal piano ideologico. Se Renzi appare non molto lontano dal centrodestra, in particolare da Forza Italia (accresce questa impressione la scelta del parlamentare forzista Andrea Ruggieri quale direttore responsabile del Riformista, diretto da Renzi), Calenda rivendica posizioni più da centrosinistra, per quanto ribadisce continuamente la lontananza dal Pd e dai Cinque Stelle.

Terzo elemento di scontro: sembra che Italia Viva, sfruttando il maggior radicamento sul territorio e l’evento della Leopolda (non a caso Azione aveva chiesto a Renzi di rinunciare all’organizzazione dell’evento politico), si sarebbe voluta sciogliere appena prima che fosse eletto dagli iscritti il segretario del nuovo partito, sperando quindi in un’affermazione di Renzi su Calenda.

C’è un quarto fattore, quello economico: le posizioni erano differenti sul contributo ai fondi del nuovo partito.

Va aggiunto che la rinuncia al partito unico non è stata una scelta distesa, ma frutto di giorni di accuse e attacchi reciproci tra i due leader. A gettare benzina sul fuoco è stato anche il pessimo risultato della lista alle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia: il candidato del Terzo Polo, Maran, ha raccolto solo il 2,7 per cento dei voti.

Di certo questa vicenda non fa bene ai due leader, il cui gradimento tra gli italiani è in discesa da tempo. Renzi continua a pagare l’errore del referendum costituzionale del 2016, mentre a Calenda è imputata un’eccessiva rissosità, manifestatasi ad esempio quando nello scorso agosto, in piena campagna elettorale, dopo aver raggiunto e annunciato pubblicamente un accordo con il Pd, ne fece carta straccia, alleandosi poi con Renzi nonostante lui stesso ne avesse escluso categoricamente il matrimonio politico.

I problemi per l’alleanza sbriciolata non sono certo finiti con il de profundis: ad esempio, nessuno dei due partiti ha abbastanza deputati e senatori per formare gruppi parlamentari indipendenti alla Camera e al Senato. Probabilmente l’unione rimarrà per ragioni di opportunismo, cioè per non perdere finanziamenti. Anche il prossimo appuntamento di maggio con le elezioni amministrative per rinnovare i sindaci in 13 capoluoghi di provincia gettano nuove ombre (a Siena e Massa i due partiti già correranno separatamente).

Alle scorse politiche il Terzo Polo ha raccolto il 7,8 per cento, finendo dietro pure a Forza Italia. Un risultato che avrebbe potuto rappresentare una discreta base di partenza per quel centro autonomo e riformista a cui guarda una parte rilevante dell’elettorato. Ma, evidentemente, i tempi non sono ancora maturi per un leader in grado di raccogliere al centro percentuali in doppia cifra.

(Domenico Mamone)

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