Associazionismo ed emigrazione



Gli emigrati vivono in genere due stati d’animo contraddittori: una sorta di rancore verso la terra d’origine e l’attaccamento morboso a essa. Il primo è legato alle ragioni stesse dell’espulsione, il secondo alla forza delle radici che tanto più si fanno sentire quanto più si è distanti dalla propria terra. Su questa ambivalenza si gioca tutta la permanenza del legame con la madre Patria e la possibilità di imbastire politiche migratorie reciprocamente vantaggiose.
In un paese come l’Italia, che non si è potuto avvalere adeguatamente delle strutture di uno Stato ancora troppo giovane e debole, l’iniziativa di seguire la parabola migratoria dei propri cittadini è rimasta quasi del tutto nelle mani del volontariato. Non appena si svilupparono i flussi migratori le organizzazioni religiose e laiche arrecarono “soccorso” ai poveri contadini e agli operai che abbandonavano l’Italia per mete dove per loro sarebbe risultata molto difficile anche la semplice sopravvivenza. Chi può dimenticare o ignorare l’opera di Monsignor Giovanni Battista Scalabrini, di Santa Francesca Cabrini o di tantissimi missionari che prestarono aiuto e infusero coraggio a decine di migliaia di nostri connazionali? Dobbiamo ricordarlo con gratitudine e riconoscenza proprio ora, in questa celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia che stiamo vivendo con orgoglio in ogni parte del mondo.
Dopo una prima fase nella quale ci si rese conto che l’assistenza resa dai volontari in funzione di supplenza delle istituzioni statali poteva funzionare solo nei primi tempi dell’insediamento migratorio, si passò a quella in cui gli emigrati stessi incominciarono (sia pure sempre col sostegno soprattutto di organizzazioni religiose e sindacali) a creare legami permanenti di solidarietà tra connazionali. Da qui prese piede il fenomeno dell’associazionismo, così ricco di sfaccettature e di varianti regionali e addirittura comunali. Esso, nelle forme organizzative classiche con cui lo conosciamo attualmente, ha coinciso con una particolare fase storica in cui, non solo nelle migrazioni, ma pensiamo anche alla cultura e allo sport, ha costituito uno dei pilastri della democrazia occidentale ed è stato perciò incoraggiato, talvolta anche economicamente, dalle istituzioni. Tuttavia, come tutti i fenomeni umani anche il tradizionale associazionismo in emigrazione presenta un suo ciclo, del quale oggi si assiste alla parabola discendente in coincidenza con l’esaurimento delle prime generazioni degli emigrati italiani nel mondo.
A questo punto due sono le cose che si possono fare: o assistere passivamente alla conclusione naturale del fenomeno oppure reagire collegandosi alle nuove generazioni di figli di italiani ancora incuriositi della Patria dei genitori. È chiaro che in questa seconda ipotesi occorrerà rivedere profondamente tutte le modalità di intervento in questo campo, comprese le politiche da adottare. Ed è su questo il terreno che le associazioni radicate territoriamente su vasta scala, come le Acli, o quelle a carattere regionale e provinciale (molte delle quali organizzate nell’Unaie – Unione nazionale associazioni immigrati ed emigrati) stanno operando da vari anni, avendo colto il “segno dei tempi”. Molto probabilmente i giovani – che non hanno minore desiderio di stare insieme rispetto ai loro padri – necessitano di forme più moderne di aggregazione che non si identificano necessariamente con i segni distintivi dell’associazionismo tradizionale. Verosimilmente la loro richiesta di legami con l’Italia non vuol essere più un modo per coltivare la nostalgia, vagheggiare il rientro e circondarsi dei simboli dell’italianità. Essa va piuttosto nel senso di una domanda di cultura (compresa la lingua), di informazione, di interscambi economici, di interessi scientifici, ecc. rispetto ai quali le risposte migliori forse sono quelle ispirate ai social network e agli appuntamenti qualificanti e finalizzati in spazi fisici non caratterizzati etnicamente ma inseriti nella società più vasta nei quali operano.
Il rapporto con gli italiani nel mondo da parte della loro Patria non è giunto quindi al capolinea storico. Semplicemente si è chiusa un’era, quella delle tradizionali emigrazioni di massa, e se ne aperta un’altra, quella delle giovani generazioni di figli di emigrati che guardano all’Italia, con i rispettivi modi di organizzare la propria presenza e le proprie istanze. In particolare i figli degli emigrati italiani vanno fatti incontrare con le generazioni di giovani che dall’Italia guardano al mondo anche come opportunità lavorativa.
Tra questi, infatti, va creato un circolo virtuoso fornendo le giuste risposte politiche e organizzative. Oggi non è chiesta più una presenza “qualunque” dell’Italia, bensì una presenza “alta” che può essere resa degnamente possibile solo dalla convergenza di sforzi degli italiani nel mondo e di quelli residenti in Italia, in testa le loro istituzioni.
Ma questo è il punto dolente: il governo che attualmente è alla guida del Paese guarda – nei fatti concreti, che contano – con fastidio agli italiani nel mondo, dimenticando che sono una grande e straordinaria potenzialità, quasi che fossero dei nemici anziché il portato di un patrimonio di valori e di umanità che non si intravedono più nella società italiana. Non è soltanto la questione dei tagli, che di certo stanno distruggendo in particolare quelle realtà che hanno contribuito e contribuiscono a mantenere saldo il legame tra italiani all’estero e madre Patria; non vi è, infatti, un solo atto di questo governo che possa essere ricordato con favore dagli italiani all’estero. Perfino la prima Conferenza dei giovani italiani all’estero fu organizzata, al ribasso, con le risorse ad essa destinate dal governo Prodi. Dobbiamo dirlo e ricordarlo, soprattutto ora che il Cgie si riunirà a Torino per celebrare in quella città il 150° anniversario dell’Italia unificata.

(On. Franco Narducci – molisano di Santa Maria del Molise)

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