Il disorientamento della destra

Si parla, con poca eleganza, di candidati non all’altezza (Bernardo, Damilano, Michetti, Maresca, ecc.). Ma anche di vicende di cronaca non proprio esaltanti, per usare un eufemismo, come quelle che coinvolgono l’ex guru della Lega, Luca Morisi, e l’europarlamentare di Fratelli d’Italia, Carlo Fidanza. Poi c’è il fenomeno Mario Draghi, che costringe la Lega ad un ruolo contraddittorio di governo e di lotta e Fratelli d’Italia ad una difficile opposizione. E ancora, l’atteggiamento ambiguo sulle vaccinazioni e sul fenomeno dei No Vax a fronte di una netta maggioranza di italiani ormai vaccinati. Ma anche lo scontro lacerante interno tra Salvini e Meloni per la leadership.

Sono tutte possibili risposte alla crisi del centrodestra suffragata dal voto alle amministrative, dopo numerose stagioni di trionfi, specie alle Regionali. Mentre la Lega arretra in gran parte del Paese, principalmente al Nord (escluso il Veneto di Zaia), la vittoria del centrosinistra è netta a Milano, Napoli e Bologna e l’analisi dei risultati dei 118 comuni con più di 15mila residenti premia soprattutto il Pd, che pur senza avanzare rispetto alle europee (anche per effetto delle liste civiche), ottiene ottime percentuali. Per i dem i numeri parlano chiaro: 36,5% nella tradizionale roccaforte Bologna; l’impressionante 33,8% a Milano; 28,6% a Torino; 16,5% a Trieste; 16,4% a Roma; 12,2% a Napoli. Considerando l’aggregato dei 118 comuni al voto, la Lega, viceversa, è passata dal 28,4% delle politiche al 7,7% di oggi, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Peggio ha fatto solo il Movimento Cinque Stelle, crollato dal 31% delle politiche del 2018 al 6,3% di oggi.

È vero che il partito di Giorgia Meloni cresce quasi dappertutto, ma non come ci si sarebbe potuto aspettare (nell’unica importante affermazione del centrodestra, in Calabria, è in realtà decisiva Forza Italia). E quello di Matteo Salvini conferma una certa egemonia al Nord, seppur molto ridimensionata. Ma la destra non è riuscita ad intercettare sia i tantissimi voti in libera uscita dei grillini, finiti o nel centrosinistra o nella forte astensione, sia quelli tradizionalmente di protesta, confluiti nella stessa astensione. Proprio il non-voto è il vero vincitore di queste elezioni, un bacino in netta crescita – non s’è recato alle urne quasi un italiano su due – che può avere in parte penalizzato il centrodestra con un elettorato deluso. Ma l’astensione-record, fenomeno a cui Meloni e Salvini imputano tutti i problemi, da sola non spiega la crisi di quell’area che un tempo si usava classificare con l’etichetta di “moderati” e oggi vede per lo più tutt’altro.

In passato si diceva che i voti si raccolgono principalmente al centro. E la Democrazia cristiana, insieme alle formazioni del pentapartito, ne erano una prova. Poi, con la fine della guerra fredda che polarizzava e ingessava lo scontro tra Dc e Pci, i voti in libera uscita hanno premiato principalmente i partiti e i movimenti di lotta, da Alleanza nazionale di Fini e dal fenomeno Lega di Bossi fino, in tempi più recenti, alla meteora Cinque Stelle di fatto conclusasi su posizione opposte a quelle di partenza. Il centro a lungo s’è svuotato. In quelle stagioni di auspicato cambiamento, dopo Tangentopoli, tanta attenzione fu posta anche alla stagione referendaria, ad esempio con le iniziative di Mario Segni sulla legge elettorale maggioritaria. 

Oggi, complice la pandemia, quel “centro” sembra tornato ad avere un senso di protezione contro gli estremismi. Il Paese è, infatti, spaccato tra chi cerca riferimenti solidi e protettivi e non tollera più coloro che alzano i toni dello scontro, con un centrosinistra che pare incarnare meglio questo ruolo di pacatezza e di responsabilità, e un’opposizione schiacciata principalmente dal fenomeno Draghi e rifugiatasi, impotente e sconfortata, nell’astensionismo. In fondo il boom di Carlo Calenda a Roma, con un ragguardevole 20% ottenuto con una sola lista civica, va proprio in questa direzione.

Per il centrodestra, sulla carta maggioritario nel Paese, si accendono però molti dilemmi. Ha più senso inseguire l’agenda di lotta di Gianluigi Paragone, tra No Vax e No Green Pass, che a Milano ha fruttato appena il 3 per cento dei consensi (Paragone è fuori dal consiglio comunale) o quella delle crociate anti-barconi, che ormai è un disco rotto in una società sempre più caratterizzata dall’integrazione (vedi Jamil Sadegholvaad, il nuovo sindaco d’origine iraniana di Rimini, o i tanti consiglieri comunali stranieri) o ancora, come ben scrive Raffaele Marmo, “gli sfasciacarrozze populisti e sovranisti, quelli nuovi e quelli di ritorno”, o piuttosto l’agenda di Giorgetti e di Zaia, ma anche di Draghi e Berlusconi, privilegiando tradizionali e importanti temi economici e sociali, dalla rappresentanza del mondo delle piccole imprese e del commercio alle istanze del ceto medio e dell’elettorato cattolico?

Oggi i ceti produttivi a tutte le latitudini, con le ferite dell’interminabile periodo di pandemia, sono concentrati responsabilmente su un unico obiettivo: il rafforzamento della ripresa economica, unico toccasana per tutto il Paese. Ciò spiega perché Mario Draghi riesca persino a surclassare tutte le riserve ideologiche sul “premier imposto dall’alto” e venga visto coralmente come una sorta di “necessità” in grado di far ripartire al meglio la macchina economica e amministrativa del Paese. La campagna vaccinale, i primi risultati economici, il prestigio internazionale, ma anche un clima di ritrovato ottimismo che nell’immaginario collettivo include pure i successi sportivi e, ultimo, quello della scienza con il Nobel per la fisica a Giorgio Parisi, sono finora le sue medaglie al merito. Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia lo hanno compreso da tempo.

(Domenico Mamone)

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