La piacevole scoperta di “In tante vite quanti sono i giorni” di Fatima Fraraccio

Sono tempi di convenzionalismo spinto. Affettato, degradato, universale. È una corrente vorace che fa propria ogni cosa. Persino ogni impeto anticonformista ne è travolto, assoggettato, finendo in flussi a senso unico con argini ben strutturati.

La subcultura televisiva è eloquente in tal senso: soliti programmi standardizzati – oggi battezzati format – presentatori imbalsamati, ospiti onnipresenti, specie se sono in tournée promozionale per un libro o un film, tesi precostituite.

La prevedibilità, assicurata anche dalla ripetitività di un’approssimativa offerta culturale o ricreativa, dal qualunquismo, dal perbenismo, è la migliore garanzia di uno spianato e rasserenante “quieto vivere”. Se il contraddittorio delle opinioni può accendere, talvolta appassionare, perfino entusiasmare, raramente produce novità, autenticità, originalità. E soprattutto quasi mai mobilita.

La rassicurante convenzione, seminando effimere emozioni (prevalentemente digitali), finisce per ammansire le platee nell’inerzia, nel rabbonire il pubblico pagante e non, nel mansuefare gli uditori con pensieri pressoché univoci e inequivocabili. È un fiotto intriso più che altro di rituale esteriorità, di faciloneria, di presunzione, di strategici adattamenti, di banalità. È quasi sempre funzionale nell’omologare le folle davanti ad ogni tipo di schermo a pollici sempre più estesi o ridottissimi (prodigi della tecnica), ma anche alle ultime consumate pagine di carta, riciclata o patinata che sia.

Il formalismo, incanalato in travolgenti e intriganti getti, smussa gli spigoli del pensiero impertinente, del giudizio irriverente, dell’acume critico. Sminuzza lo spazio della riflessione pubblica, delegandolo a tutto ciò che è utile perché (o purché) fulmineo. Produce frivole sussistenze caratterizzate dall’ossessiva sovrapposizione di istantanee e fatue impressioni: lo slogan condensatore, il mottetto digitale, al limite, un grado sopra, il calembour che presuppone perlomeno la velocità mentale. Persino la morale, ingannevole, finisce per diventare amorale. Rari fiori costituiscono l’ultima carbonara resistenza nelle aride e sterminate praterie, che sono debordate anche nei luoghi storicamente deputati alla trasmissione dei saperi, scuola e arte in primis.

Ogni tanto, a maggior ragione se casualmente, si scopre qualche gratificante “perla” intellettuale, rilevanti dosi di creatività manifestate senza capitolati. Tanto più meritoria se a produrle è una persona giovane.

Ecco perché è particolarmente appagante l’impatto con questo forziere introspettivo, ma candidamente letterario, intitolato “In tante vite quanti sono i giorni”, edito da Porto Seguro, in cui l’oggi trentenne Fatima Fraraccio raccoglie ed esterna i frutti della sua estrosa mente, in simbiosi con lo spirito, e soprattutto del suo sensibile e tormentato animo. Seppur con la difesa dell’ermetismo classico e con la lama del sarcasmo, laddove la gentilezza è “sì, direi certamente, diciamo verosimilmente, se possibile… magari forse… e infatti è probabile, più o meno (quasi quasi), chissà ma non è detto, a ben pensarci ora e poi meglio di no”. Un “sì” apre e un “no” chiude.

Lo strumento di lavoro di questa raccolta di 67 poesie – ma la definizione è riduttiva – è la cassetta degli attrezzi garantita dal liceo classico molisano e dalla laurea letteraria fiorentina dell’autrice. La quale, con giochi vorticosi da Ludus Magnus e in un’eleganza classicista ricercata, snocciola, combina e scombina a piacimento morfemi, lessemi, sememi, lemmi, vocaboli di ogni foggia e di ogni epoca che costituiscono pietre miliari nel cammino umano. Pur nel patimento interiore dell’ideatrice, che ne costituisce il volano psicologico, il tutto produce una sorta di terapia corroborante, pienamente autocompiaciuta e volutamente elitaria, selettiva, ermetica. E’ un regalo Intenzionalmente non per tutti, insomma. Ma non come fattore di chiusura, di diga verso la fanghiglia, ma di stimolo – e di sfida – per raggiungere e scoprire i sentieri inesplorati della mente e le ambiziose vette di un universo femminile.

Ecco, allora, il linguaggio aulico e solenne che recupera aurighe e giaculatorie, acquiescenze e prebende, sinapsi e rimbrotti in un ninnolo convulso e impertinente. Ecco i richiami allo spirito classico, aulico, blasonato degli avi, alla fede epica e intransigente che si muove dai numi greci e latini “umidi di pace” per approdare ai sarcofagi e agli epitaffi, ai codici e ai frammenti, ai bolli laterizi e ai diplomi militari, fino agli oracoli e alle risurrezioni, ma anche agli alfieri e ai pedoni che fondono gioco di scacchiera e richiami medievali. Non mancano i giambi e i ditirambi. Ed ecco i riferimenti alla natura più iconica e ubertosa, all’alloro e ai gelsi, all’ambrosia e al miele, ai germogli di primavera. Ancora, le passioni moralmente interdette che scivolano nell’anatomia dei corpi, nella delicatezza della pelle, nelle schiene e nei glutei fino alla gola, alle fauci, alle viscere.

L’onomatopea suggerisce e guida il vortice di parole propulsive che inizia con la sinuosa lettera “S”: l’onnipresente Sensibilità, i Suoni e i Silenzi, gli immancabili Sogni, i Sensi e gli Spasimi che conducono agli Sconvolgimenti e agli Smarrimenti, la Sete, gli Scrigni, gli Spigoli e i “Solchi Sabbiosi” con il carico di fisicità, la Storia, il Sacro (lo “Spirito Santo”). Le figure retoriche alimentano il concerto di vocali e consonanti gettate in una mescolanza apparentemente disordinata. Poi ci sono le illustrazioni, splendide, realizzate dalla stessa autrice.

La prestante materialità – c’è anche la poesia dedicata al suo paese molisano d’origine, Frosolone (“figlio d’Efesto”, dio del fuoco, perché patria di artisti della lama) – si fonde in una sublime immaterialità grazie all’accuratezza della cernita di ogni elemento: i marmi lussureggianti accompagnano le tanti divinità richiamate nel testo, le colonne ioniche sono testimoni della “gloriosa eutanasia antica”, le clessidre scandiscono inesorabilmente il tempo, l’affiorante “curva archeologica” contraddistingue la saggezza emergente dalle mani. Sono immagini potenti, solenni, vitali.

È la prova risolutiva di come il linguaggio sia un patrimonio comune di valori. Un’oasi di benessere individuale e collettiva. Un’àncora di salvezza nella turbolenza esistenziale. Le parole sono tracce di uno spartito dogmatico e infinito. E l’autrice, irrefrenabile sperimentatrice, artigiana dell’alchimia, plasmatrice di sensazioni, se ne serve senza freni o inibizioni, ma con giudizio.

Le locuzioni poetiche sono particolarmente efficaci: il “bere velluto afrodisiaco”, il “ventre a sonagli”, le “note sgozzate”, gli “uomini de-siderati”, la “dittatura dei chiaroscuri”, il “petto dunoso”. Le parole s’incontrano, si fondono e diventano immagine fertile, sempre dinamica, dal ritmo rossiniano, con un accidentale richiamo al futurismo: c’è il furioso movimento dei “cavalli sudati”, degli uccelli, degli armenti, delle serpi, della “lirica corale di lupi”, il vagito dell’agnello, la “poesia che ingravida”. L’angoscia, nel cammino curativo battiatico, conduce alla rinascita e all’esaltazione in rima sciolta.

“In tante vite quanti sono i giorni” è la prima pubblicazione della Fraraccio. La sua promessa che questa sarà la sua ultima pubblicazione è soltanto una boutade di sapore dannunziano? Ce lo auguriamo.

(G.C.)

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