OPINIONI / Mezzogiorno, emergenza lavoro



L’Istat ha certificato che su 800 mila posti di lavoro persi in Italia tra il 2008 ed il 2014, 576 mila sono stati persi al Sud con punte di assoluta emergenza come quelle della Provincia di Isernia che ha visto passare il tasso di disoccupazione dal 7,9% al 18.3%.
Il crollo dell’edilizia ha spazzato via 5 mila posti di lavoro in Molise che si sommano ai 2 mila della filiera tessile, ai mille posti dell’indotto metalmeccanico e ai 2 mila occupati della filiera agro-alimentare. Il tasso di disoccupazione in Italia è tornato ai livelli allarmanti del 1977 e in Molise il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego ha impedito di compensare le perdite del manifatturiero con l’aggiunta che il calo dei trasferimenti nazionali agli enti locali e alla Regione hanno fatto diminuire anche gli occupati nelle imprese terziarie che operano per conto della pubblica amministrazione nella vigilanza, nei servizi, nel pulimento e in altre attività.
Le manovre finanziarie nazionali a decorrere dal 2009 hanno vincolato la spesa pubblica, e vietato per legge la gestione diretta di società da parte dei Comuni e delle Regioni, sancendo l’obbligo del pareggio di bilancio all’interno della Costituzione con la modifica dell’art. 81. La conseguenza delle politiche di austerità imposte da Bruxelles e tradotte in leggi dai governi Berlusconi-Monti-Letta e Renzi dell’ultimo quinquennio, sono alla base dei 576 mila posti di lavoro persi nel Mezzogiorno con la ripresa del fenomeno migratorio che accentua la desertificazione sociale di ampie aree del Sud che stentano a riprendersi dopo 25 anni di assenze di politiche nazionali straordinarie finalizzate ad accorciare le distanze socio-economiche col Centro-Nord.
Basta scorrere i dati sugli investimenti di Enel, Anas, Telecom, Ferrovie per cogliere sul piano dei lavori pubblici cosa ha significato per il Mezzogiorno l’egemonia della Lega Nord che ha imposto la Questione Settentrionale al centro della strategia nazionale a partire dal 1990.
Chiusa la Cassa del Mezzogiorno nel 1984, e archiviate le politiche straordinarie della Legge De Vito del 1986 si è aperta una fase culminata nelle modifiche al Titolo V del 2001 che hanno attribuito alle Regioni funzioni uguali tra strutture istituzionali disuguali.
La burocrazia meridionale non ha retto ed è implosa, salvo la Basilicata per via del petrolio del Basento, con disavanzi sanitari, commissariamenti, debiti alle stelle, nuove imposte e tagli di finanziamenti e di servizi pubblici.
Se si intende invertire il trend di sviluppo nazionale bisogna dotarsi di un Piano Straordinario per il Mezzogiorno che investa sulle infrastrutture, sulla sanità, sulla scuola, sulla ricerca e sull’innovazione per accorciare le distanze e avvicinare il reddito medio pro-capite del Nord-Ovest pari a 33 mila euro annui a quello del Sud di poco superiore ai 17 mila euro annui. Le classi dirigenti meridionali abbagliate da Berlusconi e Bossi, non seppero fermare le spinte federaliste del centro-sinistra di Prodi e D’Alema, col risultato di aver ammainato insieme ai piagnistei irresponsabili del peggior clientelismo borbonico anche la Questione Meridionale posta fin dall’Unità d’Italia come cardine strategico per uno sviluppo equilibrato del Paese. O si riparte dalle scelte di De Gasperi, Moro, Riccardo Lombardi, Amendola e Macaluso, sostenute dai grandi meridionalisti quali Salvemini, Dorso, Rossi Doria, Saraceno e altri, o sarà ineluttabile assistere alla progressiva spoliazione del Sud di risorse, intelligenze e saperi.

Michele Petraroia

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