Sfuggiti a fatica al mulinello della crisi, adesso l’incertezza è lo stato d’animo con cui il 69% degli italiani guarda al futuro, mentre il 17% è pessimista e solo il 14% si dice ottimista. E’ questo ciò che emerge, a grandi linee, sulla lettura della società italiana operata nel 53imo Rapporto del Censis, presentato oggi a Roma.
Ancora un’indagine di grande spessore firmata dall’Istituto di Giuseppe De Rita, certamente uno dei più acuti lettori della nostra società, un sociologo tra l’altro romano d’origine molisana.
Ma come siamo arrivati a questo punto, in piena incertezza, si domanda il Censis nel capitolo dedicato proprio alla lettura della nostra quotidianità, di cui riportiamo un ampio passo?
Gli italiani avevano dovuto prima metabolizzare la rarefazione della rete di protezione di un sistema di welfare pubblico in crisi di sostenibilità finanziaria, destinando risorse crescenti a strumenti privati di autotutela e introiettando l’ansia del dover fare da soli rispetto a bisogni non più coperti come in passato. Poi avevano dovuto fare i conti con la rottura dell’ascensore sociale, assumendo su di sé anche l’ansia provocata dal rischio di un possibile declassamento sociale. Anche perché la nuova occupazione creata negli ultimi anni è stata segnata da un andamento negativo di retribuzioni e redditi. Oggi il 69% degli italiani è convinto che la mobilità sociale è bloccata. Il 63% degli operai crede che in futuro resterà fermo nella condizione socio-economica attuale, perché è difficile salire nella scala sociale. Il 64% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme invece la scivolata in basso. Infine, gli italiani hanno dovuto rinunciare perfino ai due pilastri storici della sicurezza familiare, il mattone e i Bot, di fronte a un mercato immobiliare senza più le garanzie di rivalutazione di una volta e a titoli di Stato dai rendimenti infinitesimali.
Stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro. Mattone e Bot erano inscritti nel codice genetico degli italiani: erano gli strumenti che rispondevano materialmente alla domanda sociale di futuro, il veicolo per salire verso livelli più alti di benessere. Ma oggi è cambiata la percezione sociale della proprietà immobiliare, considerata un costo più che un investimento. Dal 2011 la ricchezza immobiliare delle famiglie ha subito una decurtazione del 12,6% in termini reali. E il 61% degli italiani non comprerebbe più i Bot, visti i rendimenti microscopici. Venuti meno i pilastri del modello tradizionale di sviluppo, agli italiani non è arrivata però l’offerta di percorrere insieme nuovi sentieri di crescita per costruire il futuro. Anzi, secondo il 74% nei prossimi anni l’economia continuerà a oscillare tra mini-crescita e stagnazione, e il 26% è sicuro che è in arrivo una nuova recessione. Contando di fatto solo sulle proprie forze, gli italiani hanno quindi messo in campo stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro, in una solitaria difesa di se stessi, in assenza di grandi strategie da generali d’armata, di certo non avvistati all’orizzonte in questi anni. Hanno cercato di porre una diga per arrestare la frana verso il basso. La loro reazione vitale ha generato una formidabile resilienza opportunistica, con l’attivazione di processi di difesa spontanei e molecolari degli interessi personali, a dispetto di proclami pubblici e decreti: il severo scrutinio nei consumi, il cash accumulato in chiave difensiva, anche il «nero» di sopravvivenza. Così non si è fermata la corsa alla liquidità: +33,6% di contante e depositi bancari nel decennio 2008-2018 (contro il -0,4% delle attività finanziarie complessive delle famiglie). È il segno di un legame profondo con il contante che rinvia alle sue valenze psicologiche, oltre che funzionali.
La società ansiosa di massa macerata dalla sfiducia. Nell’eccezionale cambiamento epocale, condensato in pochissimi anni, il furore di vivere degli italiani li ha riportati tenacemente ai loro stratagemmi individuali. Finché l’ansia è riuscita a trasformarsi in furore, e il furore di vivere non è scomparso dai loro volti, non c’è stato alcun crollo. Ma ora c’è un prezzo da pagare. Lo stress esistenziale, logorante perché riguarda il rapporto di ciascuno con il proprio futuro, si manifesta con sintomi evidenti in una sorta di sindrome da stress post-traumatico. Nel corso dell’anno il 74% degli italiani si è sentito molto stressato per questioni familiari, per il lavoro o senza un motivo preciso. Al 55% è capitato talvolta di parlare da solo (in auto, in casa). E secondo il 69% l’Italia è ormai un Paese in stato d’ansia (il dato sale al 76% tra chi appartiene al ceto popolare). Del resto, nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi (misurato in dosi giornaliere per 1.000 abitanti) è aumentato del 23% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni (800.000 di più di tre anni fa). Disillusione, stress esistenziale e ansia originano un virus che si annida nelle pieghe della società: la sfiducia. Il 75% degli italiani non si fida più degli altri, il 49% ha subito nel corso dell’anno una prepotenza in un luogo pubblico (insulti, spintoni), il 44% si sente insicuro nelle vie che frequenta abitualmente, il 26% ha litigato con qualcuno per strada.
Il suicidio in diretta della politica italiana e le pulsioni antidemocratiche. L’altro prezzo da pagare sono le crescenti pulsioni antidemocratiche. Oggi solo il 19% degli italiani parla frequentemente di politica quando si incontra. Il 76% non ha fiducia nei partiti (e la percentuale sale all’81% tra gli operai e all’89% tra i disoccupati). Il 58% degli operai e il 55% dei disoccupati sono scontenti di come funziona la democrazia in Italia. Sono i segnali dello smottamento del consenso, che coinvolge soprattutto la parte bassa della scala sociale. E apre la strada a tensioni che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia, come l’attesa messianica dell’uomo forte che tutto risolve. Il 48% degli italiani oggi dichiara che ci vorrebbe un «uomo forte al potere» che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni (e il dato sale al 56% tra le persone con redditi bassi, al 62% tra i soggetti meno istruiti, al 67% tra gli operai).
Più occupati, meno lavoro: il bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita. Rispetto al 2007, nel 2018 si contano 321.000 occupati in più: +1,4%. La tendenza è continuata anche quest’anno: +0,5% nei primi sei mesi del 2019. Il riassorbimento dell’impatto della lunga recessione nasconde però alcune criticità. Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007-2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007. Così oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007 e parallelamente le unità di lavoro equivalenti sono 959.000 in meno. Nello stesso periodo le retribuzioni del lavoro dipendente sono diminuite del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno. I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono 2.941.000: un terzo ha meno di 30 anni (un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai (il 79% del totale).
Un’agenda condivisa contro l’epica del disincanto. Le cronache della politica nazionale registrano l’interesse del 42% della popolazione e superano le voci classiche dei palinsesti come lo sport (29%) o la cronaca nera (26%) e rosa (18%). Nelle diete informative una importanza ancora minore è attribuita alle notizie economiche (15%) e soprattutto alla politica estera (10%). Ma questo ritrovato interesse nasce dalle ceneri di un disincanto generalizzato: si guarda la politica in tv come fosse una fiction. Lo dimostra la continua espansione dell’area del non voto alle elezioni politiche (astenuti, schede bianche e nulle): il 9,6% degli aventi diritto nel 1958, l’11,3% nel 1968, il 13,4% nel 1979, il 18% nel 1992, il 24,3% nel 2001, fino al 29,4% nel 2018. E non esiste nessun altro soggetto come i politici che gli italiani vorrebbero vedere di meno nei programmi televisivi: vale per il 90% dei telespettatori. La domanda di politiche non trova un riscontro adeguato nell’attuale offerta politica. Al di fuori di retorica e propaganda, il lavoro e la disoccupazione preoccupano il 44% degli italiani (contro la media del 21% dei cittadini europei), il doppio rispetto all’immigrazione (22%), più di tre volte rispetto alle pensioni (12%), cinque volte di più della criminalità (9%) e dei problemi ambientali e climatici (8%).
Le responsabilità collettive eluse: lo tsunami demografico e il grande esodo dal Sud. Rimpicciolita, invecchiata, con pochi giovani e pochissime nascite: così appare l’Italia vista attraverso la lente degli indicatori demografici. Dal 2015 ‒ anno di inizio della flessione demografica, mai accaduta prima nella nostra storia ‒ si contano 436.066 cittadini in meno, nonostante l’incremento di 241.066 stranieri residenti. Nel 2018 i nati sono stati 439.747, cioè 18.404 in meno rispetto al 2017. Nel 2018 anche i figli nati da genitori stranieri sono stati 12.261 in meno rispetto a cinque anni fa. La caduta delle nascite si coniuga con l’invecchiamento demografico. Nel 1959 gli under 35 erano 27,9 milioni (il 56,3% della popolazione complessiva) e gli over 64 erano 4,5 milioni (il 9,1%). Tra vent’anni, su una popolazione ridotta a 59,7 milioni di abitanti, gli under 35 saranno 18,6 milioni (il 31,2%) e gli over 64 saranno 18,8 milioni (il 31,6%). Sulla diminuzione della popolazione giovanile hanno un effetto anche le emigrazioni verso l’estero: in un decennio più di 400.000 cittadini italiani 18-39enni hanno abbandonato l’Italia, cui si sommano gli oltre 138.000 giovani con meno di 18 anni.
I territori del ripiegamento e l’attrattività dell’area milanese e dell’asta emiliana. Il declino demografico non è uniforme. Dal 2015 il Mezzogiorno ha perso quasi 310.000 abitanti (-1,5%), contro un calo della popolazione dello 0,6% nell’Italia centrale, dello 0,3% nel Nord-Ovest, dello 0,1% nel Nord-Est e dello 0,7% a livello nazionale. Oggi l’Italia che attrae, e che cresce anche in termini demografici, è fatta di un numero limitato di aree. Su 107 province, 21 non hanno perso popolazione: 6 sono in Lombardia, 9 nel Nord-Est. In quattro anni Bologna ha guadagnato 10.000 residenti, l’area milanese (3,2 milioni di abitanti) ha aumentato la sua popolazione dell’equivalente di una città come Siena (53.000 abitanti in più), cui si aggiungono i quasi 10.000 residenti in più della contigua provincia di Monza. Nell’area romana invece è crollato l’arrivo di stranieri (20.000 in meno tra il 2012 e il 2018) e sono diminuite le iscrizioni dal resto del Lazio e dalle altre regioni, a riprova dell’appannamento dell’appeal della capitale.
L’enorme peso della ricomposizione sociale che grava sul sistema di welfare. Le dinamiche demografiche incidono pesantemente sugli equilibri del sistema di welfare. L’aspettativa di vita alla nascita nel 2018 è di 85,2 anni per le donne e 80,8 per gli uomini. Le previsioni al 2041 salgono rispettivamente a 88,1 e 83,9 anni. Oggi gli over 80 rappresentano già il 27,7% del totale degli over 64 e saranno il 32,4% nel 2041. Nonostante i miglioramenti complessivi dei livelli di salute della popolazione, l’80,1% degli over 64 è affetto da almeno una malattia cronica, il 56,9% da almeno due. Questi ultimi aumenteranno di 2,5 milioni di qui al 2041. Già oggi la quota di non autosufficienti è pari al 20,8% tra gli over 64, a fronte del 6,1% riferito alla popolazione complessiva, e supera il 40% tra gli ultraottantenni.
I soggetti più vulnerabili nelle maglie larghe del sistema formativo. Pochi laureati, frequenti abbandoni scolastici, bassi livelli di competenze tra i giovani e gli adulti: sono queste le criticità del sistema educativo italiano. Il 52,1% dei 60-64enni si è fermato alla licenza media (a fronte del 31,6% medio nell’Unione europea). Ma anche tra i 25-39enni il 26,4% non ha conseguito un titolo di studio superiore (contro il 16,3% medio della Ue). Il 14,5% dei 18-24enni (quasi 600.000 persone) non possiede né il diploma, né la qualifica e non frequenta percorsi formativi. Nel 2018 ha partecipato ad attività di apprendimento permanente solo l’8,1% della popolazione 25-64enne (appena il 2% di chi possiede al massimo la licenza media). L’insufficiente comprensione della lingua inglese parlata riguarda il 64,3% degli studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado. Il 68% degli adulti non possiede sufficienti conoscenze finanziarie di base.
Il calvario quotidiano di cittadini e imprese: i fattori di pressione sul ceto medio produttivo. Della Pubblica Amministrazione si fida solo il 29% degli italiani. Nell’Unione europea (valore medio: 51%) peggio di noi solo Grecia e Croazia. Erano 3.443.105 i procedimenti civili pendenti nel 2018. Di questi, il 16,1% era a rischio, ovvero procedimenti non risolti entro i termini di legge e per i quali gli interessati possono richiedere un risarcimento allo Stato. Alla fine del 2018 si quantificano in 26,9 miliardi di euro i debiti commerciali residui delle amministrazioni pubbliche fatturati nell’anno, scaduti e non pagati. Per il 60% dei commercialisti le loro aziende clienti subiscono ritardi nella riscossione di crediti dalla Pa.
I grumi di nuovo sviluppo: le aggregazioni per stili di vita che fanno identità. Sempre più spesso la costruzione di relazioni significative avviene nella vita quotidiana: fuori dai grandi progetti di mobilità sociale e dagli investimenti sul futuro professionale o familiare, ma dentro circuiti di costruzione identitaria legati alla coltivazione delle passioni. Gli italiani dispongono mediamente di 4 ore e 54 minuti al giorno di tempo libero (il 20,4% delle giornate feriali). E ne sono molto (13,6%) o abbastanza (52,6%) soddisfatti. Nel 2018 la spesa delle famiglie per attività ricreative e culturali è stata pari a 71,5 miliardi di euro (il 6,7% della spesa complessiva). Gli italiani che prestano attività gratuite in associazioni di volontariato sono aumentati del 19,7% negli ultimi dieci anni, del 31,1% quelli che hanno visitato monumenti o siti archeologici, del 14% quelli che hanno visitato un museo. E sono 20,7 milioni le persone che praticano attività sportive.
Automazione, robotica e intelligenza artificiale cambiano l’impresa e il lavoro. Nel 2018 in Italia sono stati installati 9.800 nuovi robot: meno della metà della Germania (26.700), ma quasi il doppio di Francia (5.800) e Spagna (5.300). Nel nostro Paese nell’industria sono stati installati 200 robot ogni 10.000 addetti, il doppio della media mondiale. Ma siamo in ritardo rispetto ai grandi protagonisti della produzione industriale, in particolare di autoveicoli, come Germania (338) e Giappone (327), e rispetto a economie con una manifattura altamente tecnologica, come Singapore (831) e Corea del Sud (774).
Il recupero di aspettative nell’Europa. Gli italiani si dichiarano in maggioranza contrari a fare un passo indietro su tre questioni che avrebbero un impatto decisivo sulla nostra presenza in Europa: il 61% dice no al ritorno alla lira (è favorevole il 24%), il 62% è convinto che non si debba uscire dall’Unione europea (è favorevole il 25%), il 49% si dice contrario alla riattivazione delle dogane alle frontiere interne della Ue, considerate un ostacolo alla libera circolazione delle merci e delle persone (è favorevole il 32%). Oggi l’Italia gioca in Europa il proprio destino economico, esportando nei Paesi della Ue quasi 91 milioni di tonnellate di merci l’anno (il 60,9% dei quantitativi complessivamente venduti all’estero), per un controvalore di 260 miliardi di euro, cioè il 56,3% del valore totale delle merci esportate. Accanto all’Europa delle imprese c’è l’Europa della gente. Gli italiani che risiedono negli altri 27 Paesi della Ue sono 2.107.359 (e i cittadini della Ue che vivono in Italia sono 1.583.169): sono aumentati del 12,2% negli ultimi tre anni e rappresentano il 41,2% degli oltre 5 milioni di italiani che vivono all’estero.
Il necessario ritorno delle élite per gestire la stagnazione. Non si potrà aggirare il problema di disporre di una classe dirigente in grado di tenere insieme la collettività individuando gli sforzi comuni da compiere e la direzione verso cui muoversi. Oggi solo il 18% degli italiani non ha fiducia nei medici di base e la percentuale scende al 9% nel caso degli specialisti. E in epoca di fake news diffuse nei social network solo il 21% non crede che soltanto i giornalisti professionisti dispongano delle doti indispensabili per offrire una corretta informazione. Ha ancora chance di raccogliere il giusto consenso il politico che pensa al futuro e alle giovani generazioni (secondo il 47% degli italiani), piuttosto che esclusivamente al consenso elettorale (3%).