Recensione, “Tutta la vita da vivere” di Francesco Paolo Tanzj

Con questo nuovo romanzo, Tutta la vita da vivere (Graus Edizioni), fresco di stampa, Francesco Paolo Tanzj si conferma essere il notevole affabulatore che conosciamo, da sempre connesso, in prosa come anche in poesia, ai temi del vitalismo avventuroso, tipico della letteratura americana in genere, ma particolarmente degli autori della beat generation cui egli è fortemente legato, con quel rifiuto degli schemi imposti e con quel richiamo all’istintività, alla consapevolezza dell’istante, alla vita libera e nomade che paradossalmente si traduce in ansia di stanzialità e nuovo radicamento, come fu nell’ideologia incredibilmente georgica dei figli dei fiori. Insomma, un’ansia di rinnovamento, di rinascita, di ripartenza, di riprogrammazione, che nel nostro autore si sposa tuttavia con quella sensibilità squisitamente esistenzialista ed europea, conscia della vanità di ogni spinta innovativa.

Una sfida persa in partenza, pertanto, quella del gruppo di sfigati e patetici cinquantenni di cui si parla nel libro, dal momento che nessuno di loro, o quasi, dopo la prima fase fallimentare dell’esistenza, riesce – chi per un motivo chi per un altro – a farsi, come pure vorrebbe, una vita nuova. Il motivo è semplice: qualsiasi slancio vitale pretende quella pianificazione che inesorabilmente mortifica in senso organizzativo, e dunque schematico, la spinta creativa. Così la noia piccolo-borghese finisce per avvolgere e soffocare nella sua immensa ragnatela qualsiasi anelito ideale, conducendo le menti – così dice l’autore – nell'”incapacità di applicare quell’hic et nunc così tanto sbandierato a parole”. E “non è per niente facile – spiega altrove – questa storia dell’hic et nunc, perché la nostra mente viene facilmente assalita dai ricordi, e quelli peggiori hanno spesso la meglio e noi ci ritroviamo a rivangare il passato”.

Oppure, io aggiungo, a sognare un futuro impossibile, perdendo in ogni caso smalto e freschezza nel presente, nel momento attuale che, per essere vissuto fino in fondo, non ammette dispersioni. Il fatto è che l’hic et nunc, la filosofia dell’attimo, pretende uno stato d’animo puro, di creatività assoluta, ed è una purezza difficilmente raggiungibile da parte di esseri dimentichi dell’Essere, del loro stesso Essere, quali noi siamo. Di esseri, ossia, gettati nell’esistere e abbandonati al flusso delle cose, pronti a scambiare il vivere con il lasciarsi vivere, in balia di eventi che li travolgono, vanificando ogni loro pretesa di prendere la propria esistenza tra le mani. Questo romanzo, apparentemente immerso nel tumulto e nei clangori della vita sociale (feste, cene, rimpatriate, appuntamenti di ogni genere, incontri, progetti comuni e grandi tavolate), assume così valenze squisitamente psicologiche, mostrando i modi in cui l’io che si catapulta nel mondo senza aver maturato un’adeguata forza interiore, finisce fagocitato miseramente proprio dal mostro mondano.

Ed è quanto accade al protagonista, il commercialista Sandèr Trieco, dopo la separazione dalla moglie, Irma, (separazione razionalmente incomprensibile, in quanto avvenuta senza sussulti, per puro e semplice esaurimento della spinta iniziale). Il nostro Sandèr proietta il suo sguardo tutto fuori di sé, nella speranza di poter trovare tra le antiche amicizie nuovi spunti e nuove occasioni di vita, ma è una sconfitta, una capitolazione, giacché, come dice Heidegger, non si può trovare se stessi nella vita di tutti, che è inevitabilmente vita di nessuno. I moventi per vivere vengono da dentro, non da fuori. “Di qui le sue ansie, scrive l’autore parlando di Sandér, o quella sensazione fastidiosa e sofferente di vivere una vita non sua ma di non avere il coraggio di cambiarla”.

Tuttavia, prosegue l’autore, “questo era quello che voleva fare: perdere tempo. Per non pensare troppo. Per rimandare decisioni ancora oscure e comunque premature. Per vivacchiare a modo suo questo intermezzo di vita tra un passato così prossimo e un futuro ancora tutto da inventare. Non c’era fretta. Non voleva avere fretta”. Uno stato d’animo comune a tanti suoi compagni invischiati in analoghe disavventure. Per cui il romanzo, in fondo, così ci informa l’autore, non fa che raccontare “un’unica epopea postmoderna e arrangiata di gente sempre alla ricerca di qualcosa e mai soddisfatta”. Donne ed uomini sulla soglia dei cinquanta, con vite regolarmente spezzate, nel tentativo di riannodare i fili di giovanili trame esistenziali, con una voglia matta, ma in fondo patetica, di ricominciare daccapo.

La girandola si apre con un invito in campagna – da Carlo ed Ornella, che hanno scelto di dedicarsi alla vita agreste – dove il gruppo di gioiosi commensali viene impietosamente messo a conoscenza della morte di un comune amico, Matteo. Ed ecco apparire l’ombra della morte, che si estende d’ora in avanti fino alla fine del libro con tutto il suo strascico di riflessioni deludenti ed amare. Ed è paradossale che un romanzo come questo, intitolato Tutta la vita da vivere, finisca per concentrarsi sul tema della morte, come limite estremo dell’esperienza vitale. “La morte, scrive Francesco, che poi è un evento così dannatamente naturale, ti mette davanti al fatto compiuto che è il presente da vivere – fino in fondo e con tutto te stesso – e che il resto sono solo elucubrazioni mentali, rimuginazioni stantie e fondamentalmente inutili”.

Ma il fatto è che per poter vivere il presente con tutto te stesso, devi aver elaborato un te stesso che sa affrontare il flusso degli eventi (ossia della vita e della morte) restando in qualche modo padrone di sé. Ci sono delle citazioni molto interessanti, in esergo – una di Joseph Roth, una di Tilopa e un’altra di Zenrin Kushu – che esaltano l’inazione come capacità dell’uomo di non strafare, lasciando che le cose maturino da sé. Tutto bello e condivisibile, purché non si confonda questa sana fiducia, che potremmo dire taoista, nella vita con il desiderio di nascondersi e non assumersi responsabilità. Come accade al protagonista, Sandèr, che – dice l’autore – a un certo punto “si immobilizzò, quasi facendo finta di non esistere, di non essere lì. Restò sveglio ancora per molto a pensare alle sue esitazioni, ai suoi atti incompiuti, alla sua vigliaccheria”.

Ecco: un conto è questa tipologia di inazione, che invita a cancellare se stessi e a porre la testa sottoterra come gli struzzi; un altro è intendere l’inazione come equilibrio, come capacità di vivere interiormente, oltre che esteriormente, la vita. La vita non è un viaggio a senso unico nel mondo, come potrebbe sembrare. In realtà si fanno due viaggi in uno: uno fuori e un altro dentro se stessi. In altri termini, si è eremiti tra la folla, perennemente in solitudine e perennemente in compagnia. Si è sempre soli, da quando si nasce a quando si muore. Si è soli anche mentre si vive, ma “fortuna che esiste l’amicizia, dice a un certo punto Sandèr parlando con Carlo. Io ti sto dicendo queste cose, mi sto confidando con tutta l’umiltà necessaria, ma so che non potrai aiutarmi, dirmi la parola definitiva: ma mi sei vicino, lo sento, e questo è già tanto”.

E’ il tema della solitudine, pertanto, al di là di tutte le fanfare esistenziali, a farsi davvero centrale in questo romanzo. Il tema della solitudine connesso con quello dell’amore: riflessione la cui acme possiamo trovare nelle stupende pagine dedicate alla storia d’amore intercorsa tra Viola e Sandèr. Un amore squisitamente platonico, un’intesa ideale durata un’intera esistenza, sia pure coronata alla fine da un esaltante atto carnale, immediatamente rientrato nei ranghi tuttavia: “Cerca di capire, lei dice, io ti voglio bene ma le nostre vite, lo sai, andranno avanti ognuna per conto suo. Noi ci siamo capiti per tante cose, ma siamo destinati a essere soli”. E’ paradossale, ma è proprio questo l’amore, il vero amore. E’ padronanza di sé, capacità di rispettare l’altro senza asservirlo ai nostri capricci, ai nostri egoismi, alle nostre pretese.

Ci sarebbero molte altre cose da dire. Parlare ad esempio di Giampiero, personaggio carismatico, “dei suoi soliloqui interminabili”, della “sua smania di spiegare il mondo agli altri senza aver mai capito nulla di se stesso”. Personaggio mai scosso da dubbi, che tuttavia alla fine cade in profonda depressione (ed è certamente una crescita, una maturazione). Ci sarebbe molto altro da dire e da argomentare, come ad esempio del concetto di casualità di cui a più riprese parla l’autore, che è – ricordiamolo – uno scrittore-filosofo, ma se rivelassi tutto finirei per togliere curiosità e interessi al lettore. Una riflessione soltanto voglio aggiungere a conclusione, riguardante lo stile. Una vivacità scritturale sorprendente che dà molto spazio al parlato. Gli anglismi abbondano, così come abbondano i dettagli territoriali: nomi di luoghi, di strade, di città, eccetera. La cartina geografica è molto consultata, in nome di un cosmopolitismo che è realtà contemporanea consolidata.

Franco Campegiani

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