Sinistra in crisi, errori e prospettive

Dopo la seconda guerra mondiale per circa trent’anni in Italia la cultura del popolarismo cattolico e della sinistra è stata egemone. Spinta dal movimento studentesco e dalle lotte operaie dell’autunno caldo del 1968 e riuscendo quantomeno a imbrigliare lo spirito individualista del capitalismo, ha guidato il più possibile la società verso l’interesse collettivo regolando in parte il mercato finanziario e commerciale, riducendo in una certa misura le diseguaglianze, promuovendo taluni diritti sociali e politici pur senza conseguire la piena occupazione.

Il berlusconismo e la nascita di partiti sovranisti di destra come la Lega e Fratelli d’Italia mettono in crisi non solo i principi dell’internazionalismo, della solidarietà e dell’egalitarismo, ma perfino quelli di un avanzato welfare e di alcuni fondamenti dello Stato democratico come il potere decisionale prevalente del Parlamento.

La destra riesce progressivamente a far prevalere una cultura che spinge a superare anche le forme più blande di keynesismo per un trionfo in grande stile di un neoliberismo votato al rilancio delle logiche di un mercato globalizzato autoregolamentato per riaffermare la centralità del profitto.

La perdita graduale di consenso elettorale della sinistra ha portato per la prima volta il Paese non a un governo di centro-destra ma a uno guidato dalla destra postfascista, sovranista, nazionalista, antimeridionalista, orientata al presidenzialismo, all’autonomia differenziata e alla flat tax.

Già in molti Stati europei un tale sistema politico ha portato, come sostiene opportunamente Moni Ovadia, a una metastasi della democrazia ridotta a forme puramente simboliche di partecipazione del popolo perfino nelle decisioni fondamentali e a un sistema economico dove crescono le diseguaglianze con la maggioranza della popolazione che ha una sopravvivenza grama mentre una minoranza esigua si arricchisce sempre di più grazie a una finanza e a un mercato selvaggio dove le regole le detta quasi sempre la speculazione e la corruzione.

Le ragioni della crisi non solo elettorale ma politica della sinistra vanno a mio avviso ricercate nella convinzione della stragrande maggioranza dei suoi esponenti che il mondo in cui viviamo non debba essere radicalmente cambiato in senso libertario, democratico ed egalitario ma solo tecnicamente gestito attraverso sistemi di un riformismo minimale lontano da ogni idea di cambiamento radicale delle logiche neoliberiste accettate sia con i provvedimenti del governo di coalizione giallo-rosso che di quello di unità nazionale presieduto da Draghi.

La marginalità con cui la sinistra ha affrontato i problemi della mafia, del Mezzogiorno, della corruzione, del bisogno degli esclusi, dell’impoverimento del ceto medio, della deindustrializzazione, delle delocalizzazioni, delle nuove forme di disoccupazione generate dall’automatismo e dalla tecnologia, dei recenti conflitti tra quanti ricercano lavoro e della svalutazione del salario rappresenta la ragione per la quale gli elettori l’hanno abbandonata rifugiandosi nel voto alle forze moderate di centro e perfino della destra oppure illudendosi delle nuove conversioni progressiste del Movimento Cinque Stelle palesemente interclassista mentre i più hanno scelto l’astensionismo che nelle elezioni politiche del 25 settembre 2022 è aumentato di dieci punti.

La contrazione degli investimenti dovuta a un debito pubblico in continua ascesa, alla mancata riduzione della spesa corrente e al trascurabilissimo recupero dell’evasione fiscale ha frenato per anni la crescita economica.

Se la destra ha vinto le ultime elezioni politiche, le motivazioni potrebbero essere ricercate nel fatto che essa abbia presentato al Paese un’idea di società presumibilmente condivisibile dai più anche se risulta poi parziale, contraddittoria e difficilmente realizzabile con le scarse risorse economiche disponibili.

La sinistra al contrario, estremamente frammentata e litigiosa, incapace di guardare al suo tradizionale elettorato di riferimento che è quello dei lavoratori e degli esclusi dalla ricchezza e dai servizi, non ha proposto agli elettori un progetto credibile e unitario per il futuro dell’Italia.

Da una parte il PD ha fallito nella possibilità di far coesistere il comunismo, la socialdemocrazia e il popolarismo cattolico e si è orientato sempre più verso politiche di accettazione del neoliberismo mentre altre componenti si sono sempre più isolate con l’incapacità di creare aggregazioni sinergiche in grado di realizzare obiettivi condivisi che sono stati talora solo proclamati, ma mai concretizzati con serie proposte di leggi orientate alla realizzazione dei diritti piuttosto che all’assistenzialismo.

Gran parte della sinistra non è stata o non ha voluto comprendere che era necessario anzitutto ricostruire una democrazia reale e partecipata elaborando una legge elettorale che eliminasse le nomine dei candidati da parte delle segreterie dei partiti per ricondurle a scelte definite alla base, non è riuscita a liberarsi da una visione geopolitica ormai datata né dalle logiche militariste, non si è resa conto di aver tollerato un processo involutivo di carattere sociale con la precarizzazione del lavoro, con la contrazione del welfare e dunque dei diritti e con la creazione di una disuguaglianza davvero inaccettabile generata da una redistribuzione della ricchezza sempre più iniqua.

Gli errori che hanno portato alla sconfitta elettorale delle ultime politiche sono stati allora di natura tattica ma soprattutto vanno ricercati nell’assenza di una vera capacità di apertura ai bisogni della società e di elaborazione conseguente di idee per rappresentare le necessità di chi vive in condizioni di assoluta precarietà.

I primi decreti del governo Meloni lasciano notevoli perplessità sia nel contenuto che nell’improvvisazione con cui vengono scritti mentre taluni provvedimenti rischiano di isolare l’Italia dal consesso internazionale creando tensioni al vertice delle istituzioni con la necessità di un intervento del presidente della repubblica sulle relazioni con la Francia; nondimeno Fratelli d’Italia, soprattutto dopo la passerella di incontri del presidente del consiglio al G20 in Indonesia osannata dai media, sale nei sondaggi oltre il 30% mentre la sinistra è pressoché assente non solo nella contrapposizione ferma alle prime decisioni del governo, ma soprattutto nell’elaborazione di strategie alternative che possano dare soluzione ai gravi problemi che vive il Paese.

Il Partito democratico, da tanti ancora annoverato tra le forze di sinistra, più che di un congresso ha bisogno di uscire dalle logiche del potere e delle contrapposizioni tra le sue correnti per ritrovare una vera identità politica che ha perso da tempo immaginando di rincorrere l’elettorato di centro e perdendo così ogni credibilità rispetto al bacino elettorale originario. Nei sondaggi continua a perdere consensi a vantaggio del duo Calenda-Renzi e del partito di Conte il quale sta manifestando un opportunismo sul quale occorrerebbe un’ampia analisi per chiarire anzitutto che la sfida non può essere posta all’interno di forze che vogliano definirsi di sinistra ma tra esse e quelle di una destra che rischia di creare seri problemi alla collettività nazionale già a partire dai primi decreti del governo.

Il Movimento Cinque Stelle tra l’altro ha necessità di uscire dalle incertezze magmatiche delle idee che lo ispirano e dal funambolismo sui principi costitutivi del movimento definendo poi coerentemente un percorso politico riconoscibile negli obiettivi, nelle strategie e nei provvedimenti per raggiungerli.

I partiti di sinistra continuano a contrapporsi e a moltiplicarsi in una frammentazione talora di astratto ideologismo e spesso incapaci di una lettura aggiornata e concreta della realtà economico-sociale in continua evoluzione.

La mia sensazione è che senza una riflessione seria per la ricerca di sinergie operative di carattere metodologico e programmatico essi corrano molto seriamente e rovinosamente il rischio dell’estinzione.

Se qualcuno non se n’è accorto, tale percorso è segnato ormai da anni e occorre al più presto interromperlo per evitare le tentazioni conservatrici o peggio ancora nostalgiche e reazionarie di un elettorato sempre più disorientato da una politica che, indirizzata unicamente alla ricerca del potere, finisce per diventare la negazione di sé stessa.

La riflessione deve guidare pertanto a segnare un cammino diverso da quello attuale.

La sinistra ha bisogno anzitutto di aprirsi alla società uscendo dalle decisioni verticistiche e tornando a fare politica tra la gente così come avveniva nelle sezioni dei partiti quando essi erano una sede di confronto e di decisione; ciò evidentemente è possibile solo recuperando i principi e il linguaggio che erano capaci di disegnare le progettualità anche utopiche che affascinavano e muovevano le masse verso la rivendicazione dei diritti.

C’è la necessità di un’intelligente e concreta elaborazione culturale che deve ritrovare intellettuali di riferimento che da un po’ sembrano sempre più mancare.

Occorre ancora una leadership non certamente improvvisata e costruita maldestramente, ma indicata da un consenso democratico che non può che venire dalla base così come è accaduto con Enrico Berlinguer nel 1972.

L’esigenza prioritaria in ogni caso è che ci sia coerenza tra i principi ispiratori, le decisioni politiche e soprattutto uno stile di vita indirizzato alla condivisione da parte di quanti si proclamano appartenenti all’area politica della sinistra affinché tra il dire e il fare non ci sia più di mezzo il mare.

Forse in tal modo si sarà capaci di rieducarsi alla politica come servizio al popolo e non al populismo funzionale al potere.

(Umberto Berardo)

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