Il Kosovo e la guerra “umanitaria”



Riportiamo un esemplare pezzo dell’amico giornalista Fernando Cancedda (www.nandokan.it) che fa il punto sul Kosovo a dieci anni di distanza dai bombardamenti Nato sulla Serbia…
ROMA – Esattamente dieci anni fa, con i primi bombardamenti NATO sulla Serbia, ebbe inizio la guerra del Kosovo, ovverosia l’ultimo atto del lungo, tragico conflitto nei Balcani. A quella “guerra umanitaria” ( come forse per la prima volta si definì l’intervento armato destinato a “proteggere” i diritti umani di una popolazione civile) partecipò anche l’Italia, che ancora oggi mantiene in quella zona una quota consistente delle proprie truppe all’estero. Interessa a qualcuno sapere a quali risultati ha approdato quella guerra e se l’obbiettivo allora proclamato dai nostri governi occidentali è stato raggiunto? A me sì e ho cercato di documentarmi in proposito.
Da buon giornalista italiano, comincio dalla nota rievocativa dell’ANSA (Angela Virdò, del 22 marzo 2009). ” …Per 72 giorni la Nato colpisce ponti, strade, centrali elettriche raffinerie e palazzi del potere. Ci sono anche gli errori: attacchi contro convogli di civili, treni e ospedali che provocano vittime tra i civili, “effetti collaterali” come li definiscono con un infelice eufemismo i portavoce dell’Alleanza a Bruxelles. Gia’ a meta’ aprile i comandi Nato cominciano ad allarmarsi, la resistenza delle forze armate serbo-montenegrine si rivela maggiore di quanto avessero immaginato a Bruxelles per la loro capacita’ di ripristinare rapidamente i sistemi di comando e controllo. “L’offensiva, che nei piani Nato doveva durare poche settimane, va avanti per due mesi e mezzo sino al 3 giugno, quando Milosevic si piega e accetta la resa anche se proclama:” abbiamo difeso il nostro onore contro un nemico piu’ forte di noi”. Nei giorni successivi tutti i militari serbi, umiliati e rabbiosi, lasciano il Kosovo e dietro le colonne militari partono verso nord anche centomila civili serbi che andranno ad ingrossare il piu’ grande “esercito” dei Balcani, quello degli oltre quattro milioni diventati profughi lungo le molte guerre jugoslave, il conflitto dei serbi contro la Slovenia, quello in Croazia e il piu’ sanguinoso nella Bosnia-Erzegovina. “Dal sud, sotto la bandiera dell’Onu, entrano le truppe della Nato e le centinaia di migliaia di kosovari cacciate o fuggite nei mesi precedenti in Albania e in Macedonia. Quelli che un tempo erano le vittime si trasformano in pochi giorni in aguzzini, si moltiplicano le vendette e gli omicidi contro la popolazione serba rimasta, vengono incendiate e distrutte decine di case serbe, monasteri e chiese ortodosse senza che le migliaia di soldati della Nato riescano ad impedirlo….”. Anche a giudicare dai dati ufficiali, la guerra ha prodotto in poco più di due mesi più danni e più vittime di quelli che avevano fatto in precedenza sei anni di guerra civile. Prima di quel 24 marzo 1999 le vittime stimate degli scontri tra l’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uçk) e le forze ufficiali e paramilitari serbe erano state circa duemila. Durante le 11 settimane di bombardamenti sono state uccise nella provincia, a seconda delle stime, dalle tremila alle diecimila persone, in gran parte civili albanesi assassinati dalle formazioni irregolari dell’esercito serbo. Quanto allo sradicamento forzato dei kosovari, nessuno può dire quanti di loro scapparono per evitare la furia di Milosevic e quanti per paura delle bombe NATO. Ma all’inizio delle operazioni le Nazioni Unite calcolavano in 230mila i kosovari che avevano abbandonato le loro case. Alla fine della guerra, gli sradicati erano un milione e 400mila. Di questi, 840mila erano finiti nei campi profughi della Macedonia e dell’Albania. L’anno seguente, come ha ricordato l’Ansa, la ‘pulizia etnica’ cambia colore. Si contano oltre 200mila serbi (da 300mila che vivevano nella regione) in fuga dalle vendette albanesi. Un anno fa il Kosovo, con l’appoggio degli Stati uniti, ha proclamato la sua indipendenza. Dei 192 Paesi a cui il governo del piccolo Stato (poco più di 10mila km2, due milioni di albanesi e diecimila serbi) ha chiesto il riconoscimento, 56 hanno dato risposta positiva, 22 dei quali dell’Unione europea. L’Italia è stata fra i primi “ma nella forma particolare di una sovranità sotto supervisore internazionale” ( formula dell’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema). Così oggi il Kosovo non ha soltanto un presidente, un parlamento e un primo ministro, Harim Taqui – lo stesso che aveva guidato la guerriglia anti-serba . Mantiene anche un “governatore” dell’UE, l’olandese Peter Feith, a capo di una forza militare di 16mila uomini che ha sostituito le truppe della NATO. Ma lo staterello balcanico ha anche l’economia più povera d’Europa, il 50% di disoccupazione e una potente criminalità organizzata. Nessuna industria, un po’ di commercio e molto contrabbando, droga e armi in particolare. In compenso ha ricevuto, dal 2004 ad oggi, oltre cinque miliardi di euro di aiuti internazionali. Possiamo dire che il risultato “umanitario” non è stato particolarmente brillante ? Il professor Pino Arlacchi, che all’epoca era vice segretario generale dell’ONU e come tale ha potuto avere accesso anche a fonti riservate, ne da un giudizio assai più severo e scrive che quella guerra “è stata un facile successo militare e un completo fallimento politico”. Ne attribuisce la responsabilità al “grande inganno” che attraverso un uso controllato dei media, promuove l’idea del mondo attuale “come un’arena nella quale le forze del caos dilagano incontrastate spinte dalla marea montante della globalizzazione” (“L’inganno e la paura, il mito del caos globale” ediz. Il Saggiatore). Quel che è certo è che la NATO ha agito senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, creando un precedente in base al quale, scrive Arlacchi, “qualunque associazione regionale può attribuirsi le prerogative delle Nazioni Unite in materia di salvaguardia dei diritti umani”. Il diritto internazionale non prevede la legittimità dell’intromissione negli affari interni dei singoli Stati. Così in Kosovo come in Irak e in parte anche in Somalia, in America centrale, in Ruanda e in Georgia, il comportamento dei media è stato prevalentemente quello del catastrofismo prima e del senno di poi. Ne valeva la pena? Quante altre azioni militari potrebbero essere compiute in nome della difesa dei diritti di un’etnia all’interno di uno Stato? Sono convinto anch’io, come Arlacchi e molti altri, che l’umanità abbia compiuto, nonostante tutto, passi da gigante nel lungo cammino della pace e della democrazia, ma credo anche che l’ipocrisia dei potenti ne abbia compiuti altrettanti nell’uso più disinvolto delle tecniche di propaganda. Scrive Arlacchi nel suo libro, che consiglio a tutti di leggere, che ” la dilatazione delle minacce e l’ingigantimento della statura degli avversari fino a oltre il confine del ridicolo è una costante dell’informazione manipolata…ogni avversario è un ‘nuovo Hitler’, e qualunque tentativo di evitare la guerra è una ‘nuova Monaco'”. Dieci anni fa Slobodan Milosevic, un burocrate di partito che pretendeva di tenere insieme con le minacce e la prepotenza un paese in disgregazione, diventa l’Hitler de Balcani. Così come un satrapo sanguinario come Saddam Hussein diventerà a sua volta l’Hitler arabo. Anche un mio vecchio amico, il giurista Danilo Zolo, ha scritto poco dopo l’intervento nei Balcani, un interessante volumetto: “Chi dice umanità, Guerra,diritto e ordine globale” (Einaudi, 2000). Vi sostiene – e a parer mio non ha tutti i torti – che “la qualificazione della guerra come ‘intervento umanitario’ è un tipico strumento di autolegittimazione della guerra da parte di chi la sta conducendo. Come tale è parte della guerra stessa: è, in senso stretto, uno strumento di strategia militare diretto ad ottenere la vittoria sul nemico”. Quanto alle vere (ma discutibili) ragioni dell’intervento Nato, sono state fatte diverse ipotesi geopolitiche, molte delle quali ragionevoli. Mi limito a segnalare quella dedotta dal pensiero di un grande specialista americano della materia, Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza del presidente Carter, ribattezzato anche il “Kissinger” dei Democratici in USA. I Balcani, sostiene, sono un’area di estremo rilievo nella prospettiva egemonica degli Stati Uniti, perciò il sistema di sicurezza europeo deve “pienamente coincidere con quello americano” in modo che l’Europa divenga “la testa di ponte americana sul continente euro-asiatico”. In tale contesto, si spiega facilmente la sollevazione degli Stati Uniti e di molti governi alleati quando giovedì scorso la Spagna, che del resto non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, ha improvvisamente annunciato, per bocca del ministro della difesa Carme Chacon, il ritiro dei 632 soldati spagnoli di stanza nella regione. Nessuna meraviglia neppure che il giorno dopo, il braccio destro del premier Zapatero, Bernardino Leon, in visita a Washington, abbia voluto assicurare che il ritiro sarà effettuato “in stretta cooperazione con gli alleati” e potrebbe durare anche “un anno”.
(Fernando Cancedda – www.nandokan.it – 24 marzo 2009)

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