L’onda americana

Quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, con dimostrazioni, disordini, saccheggi e il coprifuoco in almeno 25 città (dai due morti di Chicago all’auto scagliata contro gli agenti a Buffalo, fino alle cariche della polizia davanti alla Casa Bianca) merita qualche riflessione.

Come noto, a far scoppiare la rivolta è stata la morte dell’afroamericano 46enne George Floyd, a Minneapolis, in Minnesota lo scorso 25 maggio. L’arresto è stato eseguito da quattro agenti di polizia: uno di loro, Derek Chauvin, ha premuto il suo ginocchio sul collo di Floyd per oltre otto minuti. Secondo l’autopsia predisposta dai familiari, la sua morte è stata “un omicidio causato dall’asfissia, provocata dalla compressione della schiena e del collo, che ha portato alla mancanza di flusso sanguigno al cervello”. Le immagini della tragedia, riprese dai passanti, hanno fatto il giro del mondo.

Gli Stati Uniti, anche in questo nuovo millennio, dimostrano che l’odio razziale è una pratica non ancora archiviata. L’episodio di Minneapolis è soltanto l’ultimo di una lunga serie di violenze, che vedono spesso la polizia protagonista. Questa volta, a gettare benzina sul fuoco delle proteste, ci sono però altri fattori: innanzitutto la pandemia, che sta creando milioni di disoccupati soprattutto tra gli afroamericani. Ma anche l’insofferenza verso il presidente Trump, espressione di tensioni ideologiche e sociali, di contrapposizioni in fondo mai spente.

La scintilla di Minneapolis sembra aver dato fuoco ad una polveriera che era già pronta per esplodere. La mancata integrazione, le molteplici ingiustizie, i posti di lavoro poco garantiti, una sanità di difficile accesso, le disparità razziali, le fratture generazionali sono realtà che confermano la vulnerabilità del sistema americano. Colpisce la diffusione della protesta in tutta la nazione: è vero che nell’epoca dei social viviamo ormai un “villaggio pienamente globale”, ma è altrettanto vero che la dilatazione geografica delle violenze conferma un’insofferenza profonda che rischia di estendersi altrove.

Il “pugno di ferro” adottato dal presidente Trump, che grazie all’Insurrection Act del 1807 può utilizzare il potere di dispiegare militari, servirà davvero a poco rispetto ad una crisi che è innanzitutto sociale e che dimostra come i numeri esaltanti degli Usa sul fronte lavoro soltanto di qualche settimana fa rappresentavano un castello di sabbia buttato giù dallo tsunami della pandemia. Più proficue possono essere le dimostrazioni di solidarietà che si stanno moltiplicando: è ilcaso dei tanti poliziotti che s’inginocchiano davanti alla folla in segno di scuse, uno strumento efficace anche per allentare le tensioni.

Le notizie americane dimostrano che per prevenire il diffondersi del disagio e delle conseguenti proteste, talvolta indubbiamente strumentalizzate anche dai gruppi violenti, è necessario fare presto. Principalmente garantire sostegni a chi ne ha realmente bisogno. Ma anche cominciare a ripensare una società più giusta, sostenibile e inclusiva.

(Domenico Mamone – presidente Unsic)

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