Pettinicchi, quel poeta del dolore che dipingeva con rabbia



Nel 1993 Giuseppe Tabasso incontrò Antonio Pettinicchi, suo vecchio compagno di studi, e gli dedicò questo incisivo ritratto apparso sul mensile “Molise”. Lo riproponiamo ai nostri lettori.

Esattamente trent’anni fa, autunno 1963, Antonio Pettinicchi, pittore molisano di Lucito, appese al chiodo pennelli, cavalletto e tavolozza e smise di dipingere. Aveva 38 anni, era nel pieno della sua potenza espressiva, l’uso dei colori non aveva segreti per lui, poteva fare tutto: decise di non fare più nulla.
Antonio Pettinicchi è, paradossalmente, il più molisano e il meno molisano dei nostri pittori. Si esprime meglio in dialetto, sta bene (si fa per dire) solo nel Molise e il solo pensiero di partire, anche per poche ore, gli dà il panico. Si trova a suo agio solo con la sua gente, è diffidente con i “borghesi” e con il loro linguaggio, nel suo “studio” campobassano (squallida stanzetta di uno squallido edificio moderno) non esiste una sola sedia e lui stesso dipinge all’impiedi ossessionato dall’idea che vi si possa “fare salotto”.
Dipinge solo gente e scenari molisani, ha bandito nature morte e fiori (ma riconosce che “anche un fiore può essere un oggetto drammatico”). Ha illustrato le tre cantiche di Dante – forse il suo lavoro più impegnativo – e nel ˇParadisoˇ, insieme a Caravaggio, Gauguin, Van Gogh e all’adorato Mahler, ci ha messo i suoi contadini (oltre ad un suo figlio morto). Nel suo Inferno i contadini sono assenti, vi figurano solo borghesi, molti politici, burocrati, anche pittori, personaggi in vista, sui cui nomi si lascia scappare una sarcastica confidenza (poi, però, se ne pente e mi vincola al giuramento di non rivelarli).
Il suo mondo rimane sempre e ossessivamente il Molise. Per capire Trivisonno si deve conoscere Giotto e Michelangelo, per capire Marotta si deve amare De Chirico e Bernini: non si capisce Pettinicchi se non si capisce il Molise. Scarano raccontava il Molise al mondo, Pettinicchi racconta (con rabbia) il mondo al Molise. Ma certi suoi dipinti, come quelli sul bombardamento di Isernia o sulla strage di Fornelli – le sue “Guerniche” molisane – sono racconti di valenza universale.
Chi gli stava più vicino diede poco peso alla decisione di gettare alle ortiche i pennelli: si pensò a un bisogno di “ricaricare le batterie”, a una delle sue “mattane”, a un passeggero momento di crisi, a una fase di stanca e perfino di pigrizia. Si trattava, invece, di un vero e proprio suicidio artistico, un atto d’intransigenza esistenziale, il karakiri del Pettinicchi più “facile” e più felice di sé, l’estinzione del Pettinicchi “tonale”. Pettinicchi versus Pettinicchi.
La sua “morte apparente” durò fino al 1973: dieci lunghi anni durante i quali il l’artista sopravvisse a se stesso insegnando disegno e storia dell’arte proprio nelle aule di quell’istituto magistrale di Campobasso dove negli anni ‘40 egli, povero studente di estrazione contadina, ebbe come suo primo insegnante di disegno Amedeo Trivisonno. Dieci anni di silenzio totale e di buio artistico.
Poi la fulminante riapparizione. Ma quello che torna sulla scena artistica molisana è un Pettinicchi annichilito, sconvolto, lacerato. Atonale. Maledetto. I suoi dipinti sono urla di rabbia, di passione, di rancore, di amore e orrore del presente: un’esplosione non più trattenuta, un tormento senza estasi.
“I miei quadri – mi dice – sono tragedia, luce e odori, sì anche gli odori che perdi in un attimo possono essere tragedia”.
E di tragedia è atrocemente segnata la sua vita privata, familiare, una nicchia oscura in cui non è assolutamente consentito far capolino, ma che Pettinicchi, artista di origini e cultura contadina e dunque incapace di understatement e metafore, finisce tuttavia col “denudare” nei suoi dipinti.
Nel terribile “Autoritratto in un paesaggio nevoso” si esibisce letteralmente “sviscerato” (lui stesso di definisce personaggio “squartato”); il colore dei suoi occhi penetranti, azzurrissimi, non si rifletterà mai più nei suoi cieli minacciosi, tempestosi; i suoi “paesaggi” sembrano incubi dipinti con un bisturi che li seziona e accartoccia in un rincorrersi di frane e crepacci.
Castellino sul Biferno, la cui sopravvivenza è minacciata da una frana e dove Antonio ha una casetta, è il suo spettrale paese-simbolo, più volte ricorrente nei suoi quadri. E in uno di essi – “La banda suona la Vª di Mahler a Castellino” – c’è l’altro ossessivo mito artistico di Pettinicchi: Gustav Mahler e la Sinfonia nº 5, il cui primo movimento, non a caso, ha un tempo di marcia funebre.
“L’arte non è rassicurante – mi dice – perché dovrebbe esserlo la mia?” Gli chiedo: “Sei credente ?” Mi guarda, poi risponde: “Purtroppo!”
Chissà se un giorno, la vecchiaia, la saggezza, il distacco dalle cose della vita potranno mai placare questo suo conflittuale rapporto col mondo. Chissà se potremo mai vedere un terzo Pettinicchi che approda alle sponde della rassegnazione, se non della serenità. Chissà se alla fine del suo tormento ci sarà un pò d’estasi. La domanda è senza risposta. Antonio si stringe nelle spalle, abbozza quel suo nevrotico sorriso-ghigno e strizza quei suoi occhi azzurri acciaio per togliere qualsiasi illusione, come per dire “ma che ne sapete del dolore…”.

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