Dad o “in presenza”: perché l’immagine della scuola esce (ingiustamente) a pezzi dal Covid

L’ultima lettera aperta è sottoscritta dai docenti del liceo classico “Tasso” di Roma. Simbolo dell’establishment della Capitale. Qui s’è diplomata gente come Massimo D’Alema e Giovanni Floris. I prof firmatari esprimono “sgomento” per la decisione ministeriale di smembrare due classi del secondo anno, scelta del resto comune con altre scuole. “La decisione di smembrare gruppi classe già formati e consolidati, nell’attuale situazione si rivela irrazionale e fortemente contraddittoria – scrivono Federica Berto, Stefania Cecchini, Giuliano Cianfrocca, Patrizia Concetti, Maria Luisa Costantini, Marco Damiani, Massimo D’Arco, Luigi De Luca, Fabio De Propris, Antonella Del Buono, Mauro Di Lisa, Laura Di Muzio, Antonella Forgelli, Fabrizio Fringuelli, Grazia Garofalo, Gabriella Lanza, Marina Longo, Manfredi Mannato. Guglielmo Mochi Onori, Irene Paniccia, Massimo Pieggi, Giuseppina Pirro, Susanna Possidoni, Antonella Resciniti, Marco Romano, Marcella Sorano, Paola Tassini, Giuseppe Valente, Teresa Vanalesti, Sergio Ventura e Rossella Vuolo, i docenti firmatari della lettera. E si richiama il solito mantra della necessità di riprendere “la didattica in presenza in piena sicurezza”, come se riunire centinaia di studenti non sia comunque una pratica di rischio (non a caso proprio il “Tasso” ha registrato casi Covid già i primi di ottobre). Quel “piena” vicino a “sicurezza” la dice lunga sull’ideologizzazione della questione.

Quest’anno più che parlare di scuola, di contenuti, di prospettive future ci si è soffermati sui problemi gestionali e, soprattutto a livello ministeriale, sulla “lista della spesa” dei tanti soldi “investiti” – usiamo il termine più favorevole per non dire “buttati” – per interventi di manutenzione, banchetti, mascherine, ecc. S’è parlato di assembramenti davanti alle scuole e di mezzi di trasporto. Ciò, in fondo, la dice lunga sulla difficoltà di assicurare una scuola “normale” in un anno “eccezionale”.

In compenso sono falliti i tracciamenti, sono mancati i tamponi, non s’è visto il presidio sanitario nell’istituto, la misurazione della febbre è stata oggetto di materia da tribunali, i libri non sono stati aggiornati in forma digitale, nessuno s’è preso la briga di monitorare con dati certi e completi la situazione epidemiologica negli istituti scolastici e la realtà della fallimentare scuola in presenza è stata caratterizzata soprattutto dalla discontinuità, dalle ansie di tutti, dalla crescita del fronte pro-Dad da parte di docenti, genitori e studenti. In tutto questo il personale della scuola ha incluso veri e propri “eroi”: però le polemiche ideologizzate tra fautori della Dad e “pasionari” della scuola in presenza hanno finito per svilire il ruolo dei professori, tacciati talvolta di essere “scansafatiche” (causa la Dad casalinga) o “incoscienti” (la scuola in presenza dispensatrice di virus).

Questi schizzi di fango sono rafforzati dalle conseguenze per la decisione di differenziare gli orari d’ingresso tra le 8 e le 10, che giustamente sta facendo andare su tutte le furie molti professori (ma anche genitori e studenti), anche perché gli orari vanno riscritti e uscire da un istituto anche alle 17 non è proprio il massimo, con conseguenze sull’assegnazione e sulla correzione dei compiti. Anche in questo caso, la levata di scudi di presidi e sindacati viene letta con sdegno da molte persone in quanto la categoria dei docenti “con il posto fisso” è particolarmente attaccata di questi tempi.

Mentre l’occasione “forzata” della Dad avrebbe potuto apportare quell’innovazione tanto inclusa nei programmi – ma solo in quelli – della politica, ad esempio attraverso l’aggiornamento professionale, la copertura tecnologica e la distribuzione gratuita di dispositivi specie nel Mezzogiorno per colmare i gap, il richiamo legittimo ai valori della scuola in presenza (benché rischiosa per il periodo) ha finito per creare l’ennesima frattura, anche ideologica, alimentando un veteroprotagonismo di sparute minoranze e goffi tentativi di emulare Greta da parte di qualche studente, con il supporto dei principali quotidiani, o di ricorrere al romanticismo degli incontri (già a settembre proprio una studentessa del “Tasso” dichiarò ad un’agenzia di stampa la gioia di tornare a scuola per rivedere il compagno di banco).

Riaprire la scuola, diciamolo chiaramente, è un azzardo. Anche perché coincide con l’inverno, con l’impossibilità di areare i locali, con le influenze stagionali, con la sofferta partenza di una campagna vaccinale che dagli entusiasmi iniziali (“Tutti liberi entro l’estate”) rischia di farci convivere con il virus per almeno un anno. Schierarsi con la Dad non significa preferirla alla didattica in presenza, ma essere pragmatici, profetizzando nuovi problemi, altre discontinuità, inevitabili chiusure. Tra l’altro il 7 gennaio si ripartirà probabilmente con oltre 10mila nuovi contagi e centinaia di decessi al giorno, mentre il 14 settembre, al suono della prima campanella, i decessi erano 14 e i nuovi casi appena un migliaio.

Insomma, meglio il valore della vita e della salute rispetto a quello della socializzazione, che i giovani recupereranno alla prima occasione utile.

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