Il maschilismo

Già gli studi dello storico Johann Jacob Bachofen a fine Ottocento avevano lanciato l’idea che nel Paleolitico, ma anche in talune civiltà arcaiche ci fosse stata una società matriarcale fondata sul culto della Dea Madre.

Il ritrovamento nel 2008 in Germania di una statuina risalente a trentacinquemila anni fa e probabilmente raffigurante una divinità femminile, come pure il mito delle Amazzoni o di Perseo e Medusa confermerebbero tale ipotesi.

Studi archeologici avvalorerebbero l’esistenza nel Neolitico di civiltà egalitarie e pacifiche, di certo inizialmente prevalenti nel tempo fino a circa cinquemila anni fa e incentrate sulle donne nella funzione di organizzazione sociale con gli uomini nel ruolo di approvvigionamento dei beni di prima necessità come la raccolta, la caccia e la pesca.

Ancora oggi nel mondo diverse etnie risultano matriarcali soprattutto in Indonesia, Cina, Messico e nelle isole Comore.

In esse le relazioni collettive sono fondate sull’uguaglianza e sul rifiuto di ogni prevaricazione di un genere sull’altro come sottolinea la filosofa e ricercatrice culturale tedesca Heide Goettner Abendroth considerata unanimemente l’iniziatrice degli studi sul matriarcato come istituzione attenta alla conservazione dell’equilibrio sociale.

Il passaggio al patriarcato come dominio autocratico dell’uomo nella famiglia e nel sistema sociale, ci sarebbe stato circa cinquemila anni fa soprattutto con l’acquisizione del concetto di paternità e del potere religioso e militare da parte degli uomini.

Popoli guerrieri provenienti dalle pianure del Volga diffusero in Europa e in Oriente divinità maschili, nuove forme di potere e di costumi, il concetto di proprietà e la trasmissione dei beni per linea maschile.

Entra così in maniera assolutamente prevalente nella storia umana il maschilismo, un neologismo che usiamo dagli anni sessanta del secolo scorso per indicare l’acquisizione pressoché totale di potere da parte degli uomini fondata sull’assurda convinzione della loro superiorità sulla donna.

Tale predominio virile si esprime in genere con la ricerca ossessiva del successo professionale attraverso la competizione, con l’infedeltà nelle relazioni sentimentali e con la ricerca di forme di controllo e di comando sulla partner fino alla violenza che già troppe volte è arrivata al femminicidio.

Nella storia presso molti popoli si sono avute tipologie di gerarchie che hanno dato forza decisionale e privilegi a gruppi sociali piuttosto che ad altri come è avvenuto per gli eroi, gli scribi, i sacerdoti, i nobili o i mercanti; tuttavia gli ordinamenti sociali sono mutati in relazione alla cultura del tempo e conseguentemente diverse categorie di organizzazione della società per la regolazione della distribuzione delle funzioni e della ricchezza hanno subito variazioni.

L’unica forma di potere rimasta radicata nel tempo è quella di genere che vede gli uomini in una condizione di assoluta occupazione dei posti chiave nello Stato e nella collettività con una discriminazione delle donne considerate del tutto gestibili in funzione della preminenza del maschio in tutti i settori e a livello relazionale vagliate come possesso dell’uomo sia nel matrimonio che in altre forme di convivenza e perfino oggetto di sfruttamento becero come avviene ad esempio nella pubblicità.

Già presso i greci Aristotele sosteneva la natura debole e scarsamente intelligente della figura femminile e Platone, nonostante alcuni cenni positivi nel libro V della “Politeia” sulla possibilità che entrambi i sessi possano accedere alle stesse occupazioni, considerava le donne in posizione di subalternità come appare molto chiaramente nel “Timeo”.

Tale concezione misogina non è cambiata tra i romani, nel Medioevo e nella civiltà moderna fino ai nostri giorni e fondamentalmente rimane presso tutti i popoli con le donne viste prevalentemente nelle mansioni domestiche e di educazione dei figli o al più dedite alla vita monastica, ma in ogni caso molto spesso dipendenti dalle scelte dei padri e dei mariti e quindi senza alcuna libertà di autodeterminazione.

Nonostante alcune allusioni di Tommaso d’Aquino sulla pari dignità di genere, anche i percorsi delle diverse religioni sul piano teologico e nella struttura organizzativa non hanno dato contributi rilevanti per una definizione chiara della parità di genere dentro e fuori dalle Chiese.

La violenza sulle donne è testimoniata da molte pagine dell’Antico Testamento come ad esempio in Genesi 12 in cui Abramo cede Sara al Faraone, in Genesi 34 in cui si racconta della violenza sessuale su Dina, figlia di Giacobbe, o nel capitolo 19 del Libro dei Giudici in cui si narra di uno stupro violento di gruppo su una concubina uccisa poi dal levita in modo orrendo, ma anche nella mitologia greca con le prepotenze sessuali di dei e semidei o nel mondo romano con la leggenda di Rea Silvia e l’episodio del ratto delle Sabine; oggi poi essa si esprime nei femminicidi e nella repressione dispotica di regimi teocratici ad ogni tentativo di liberazione.

La stessa discriminazione pesa su molte forme di orientamento e di espressione della sessualità rappresentate da persone vittime di pregiudizi omofobici.

Come nel passato la quantità di rispetto e di diritti per la persona è ancora oggi legata al concetto di mascolinità che non solo ha generato e conservato la struttura sociale, politica e perfino religiosa per secoli, ma ha condizionato anche la narrazione storica tutta incentrata sulle figure dei grandi uomini con l’esclusione all’incirca assoluta del contributo alla civiltà delle donne e delle masse dai manuali di storia, di letteratura, di filosofia, di arte, come ha sottolineato opportunamente Bertold Brecht nella lirica “Domande di un lettore operaio”.

Le violazioni dei diritti umani per la donna, presenti pressoché ovunque in tutti i continenti, raggiungono livelli intollerabili soprattutto in Iran, Afganistan, Arabia Saudita, India ma anche in tanti altri Paesi nei quali il tentativo di liberazione viene represso talora in maniera drastica e violenta.

Inutile dire che la condizione di soggezione della stessa all’uomo deriva soprattutto dalla mancata indipendenza economica come dimostrano i dati sulla disoccupazione femminile.

Anche in Italia l’ultimo rilevamento ISTAT sui possibili ruoli all’interno della società vede risultati orientati a forti pregiudizi di genere con le donne dipendenti dal partner o da altro familiare per il 31%.

I dati di genere nella presenza in vari ambiti della vita sociale ci dicono con chiarezza che c’è un gap enorme in favore degli uomini.

D’altronde nei ruoli apicali di carattere artistico, sportivo, economico, giuridico, politico e sociale il numero delle donne è ancora molto limitato.

Filippo Maria Battaglia nel suo volume “Stai zitta e va’ in cucina” del 2015 scopre tutte le discriminazioni e i pregiudizi nei confronti di quante sono impegnate in politica anche nel linguaggio che talora raggiunge insulti misogini irripetibili.

Il recente film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” attraverso le vicende di una borgatara romana nel secondo dopoguerra riesce a trasmettere un’idea estremamente realistica della condizione di soggezione della donna al maschilismo imperante in un periodo in cui esso si esprimeva attraverso una violenza inaudita.

Non si può non rilevare che questa dominazione del maschio si è espressa in termini psicologici, fisici, economici e perfino a livello linguistico portando progressivamente alla tragedia dei brutali femminicidi verso i quali solo dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin il dolore si è trasformato in rabbia con molte manifestazioni pubbliche e, si spera, con la volontà di superare un maschilismo che non ha alcuna ragione di essere anche se la subcultura machista ha tentato di darne delle giustificazioni a livello biologico, genetico, filosofico e perfino teologico che nulla hanno di razionale e scientifico, ma rappresentano solo il tentativo maldestro di difendere il potere dell’uomo sulla donna.

Tra le più decise a tentare una rivoluzione nell’analisi delle relazioni a livello di genere è stata sicuramente Simone de Beauvoir in tutte le sue opere ma in particolare nel volume “Il secondo sesso” del 1949.

È certo che dopo secoli ancora non riusciamo a scardinare teorie assurde che hanno portato in quasi tutte le culture il prevalere assolutamente ingiustificato del maschile sul femminile.

Certamente molte donne fanno valere il loro valore e lottano per la paro dignità, ma il maschilismo purtroppo persiste tra noi con profili irritanti e si esprime in forme assolutamente disumane specialmente quando viene esercitato in branco.

Il tentativo di giustificarlo, frequentemente posto in essere soprattutto da chi esercita forme di potere, è davvero ripugnante.

Neppure il concetto di condivisione presente nella cultura cristiana e marxista e tantomeno il movimento femminista sono riusciti a scardinare tale assunto.

La stessa nozione di amore, così chiara nel messaggio evangelico, si è deteriorata nelle relazioni affettive e sentimentali quando non viene più considerata come dono di sé all’altra e viceversa e la donna è concepita come possesso funzionale alle proprie aspirazioni individualistiche di carattere sessuale, economico, sociale e politico.

Tutto questo è assolutamente inconcepibile e intollerabile in una società che voglia definirsi civile.

Come sottolineavo sopra si delinea all’orizzonte qualche tentativo di cambiamento nello scardinare il simbolo fallico del potere, ma temo che tutto possa ridursi in un margine ristretto limitato all’analisi delle componenti di carattere psicologico, familiare e sociale che determinerebbero la violenza di genere.

Tutelare le vittime e punire severamente i responsabili di ogni forma di prepotenza è sicuramente improcrastinabile.

In ogni caso non è sufficiente ridurre l’impegno alla richiesta di protezione dall’aggressività fisica da parte degli uomini, ma occorre rompere la distribuzione squilibrata del potere.

La ridefinizione dei reati e delle pene nella violenza contro le donne deve portare all’affermazione del rispetto per la loro dignità sul piano dei rapporti interpersonali ad ogni livello.

Il fenomeno dunque è sicuramente più complesso e richiede soprattutto una lotta di carattere politico per scardinare definitivamente i presupposti assurdi del maschilismo e del sessismo ridefinendo chiaramente la parità dei diritti a livello di genere.

Abbiamo anche la necessità di ricostruire educativamente in tutti comportamenti responsabili fondati su regole e valori condivisi che in tante circostanze sembrano davvero assenti in una società dominata da narcisismo, anarco egocentrismo, impulsi istintivi e soprattutto da tanta violenza.

Il maschilismo, per parafrasare lo storico francese Fernand Braudel, appartiene a quelle correnti di pensiero profondamente sedimentate nella storia attraverso millenni e dunque non è facile da sradicare intorno a noi.

Abbiamo bisogno di un’azione continua che muova cambiamenti di ordine culturale e antropologico.

Le manifestazioni di piazza e la deterrenza delle pene rispetto alla violenza possono aiutare certamente, ma occorre un cambiamento radicale sul piano legislativo, educativo e sociale.

Tutte le agenzie deputate alla formazione dei giovani hanno il dovere di attivarsi per ricostruire segnatamente negli uomini il senso di responsabilità nelle azioni e il rispetto per la dignità di tutti.

Un tale lavoro non può che partire dalla Costituzione Italiana e in particolare dall’articolo 3 che recita testualmente “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Questo articolo, che sancisce uno dei principi fondamentali della convivenza, è ancora del tutto inapplicato in un Paese come l’Italia nel quale la dignità e l’eguaglianza sono negate a tante categorie di cittadini e nella fattispecie anche alle donne.

Queste ma anche e soprattutto gli uomini devono pretendere che l’azione educativa, culturale, giuridica e politica si attivi attraverso tutti i canali dell’informazione e della formazione per eliminare gli stereotipi di ripartizione di compiti e modelli sociali che hanno portato alla sottomissione della donna e che impediscono la realizzazione di quella pari dignità sociale tra i cittadini di cui appunto parla la nostra Costituzione.

(Umberto Berardo)

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