L’attualità di don Lorenzo Milani

Ricorre oggi il centenario della nascita di don Lorenzo Milani avvenuta a Firenze il 27 maggio 1923.

Dopo la frequenza del liceo Berchet a Milano, dove si è trasferita la famiglia, il giovane Lorenzo rifiuta di iscriversi all’università e si dedica alla pittura seguendo un corso all’Accademia di Brera che lascia poi per entrare in seminario nel 1943.

Dopo due brevi esperienze come coadiutore a Montespertoli e a San Donato di Calenzano, per screzi con la curia di Firenze viene inviato nel dicembre 1954 nel Mugello dove ricopre l’incarico di priore di Barbiana, una frazione di Vicchio con centoventi persone, allora senza strade, acqua, luce e scuola.

Qui assume ruoli assai articolati ed è per anni parroco molto vicino agli abitanti, docente degli alunni di quel piccolo agglomerato di case, educatore e scrittore.

Fedele testimone del Vangelo, ha un rapporto difficile non solo con la gerarchia ecclesiastica, ma anche con le istituzioni dal cui potere autoritario si smarca con l’autenticità di un pensiero libero che lo guida nella testimonianza del Vangelo, nella tenace ricerca della verità e nell’impegno per la costruzione di una società di eguali.

Muore il 26 giugno 1967 a soli quarantaquattro anni a causa di una grave malattia, il morbo di Hodgkin, diventando subito il simbolo del mondo studentesco sessantottino.

Sulla sua figura non sono mancate le polemiche di Sebastiano Vassalli che lo accusa di demagogia e falsificazione della realtà e di Indro Montanelli che scrive di deviazioni gianseniste, mentre Pier Paolo Pasolini, pur esprimendo in generale un giudizio positivo sui suoi scritti, invita tuttavia i ragazzi di Barbiana a superare il mondo contadino di provenienza perché “circoscritto, parziale, particolaristico”.

C’è anche chi ha criticato la forma e lo stile del linguaggio da lui utilizzato.

Al riguardo vorrei sommessamente ricordare che non è solo la raffinatezza espressiva a rendere grande un intellettuale ma soprattutto la ricchezza del pensiero e la sua utilità sociale.

La stessa Chiesa d’altronde pretende il ritiro di “Esperienze Pastorali” subito dopo la pubblicazione e ha grande insofferenza per “L’obbedienza non è più una virtù” e per “Lettera a una professoressa” in cui don Milani esprime una fede lontana da forme abitudinarie o superstiziose e praticata invece alla luce del Vangelo sostenendo la necessità dell’amore per i poveri e gli emarginati, la realizzazione di un pacifismo coerente e la creazione della giustizia sociale.

I cappellani militari giudicano la sua difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare “un insulto alla patria” mentre quel sacerdote ha capito che la guerra si può eliminare solo rompendo il carattere dogmatico dell’obbedienza sempre e comunque, ma soprattutto quando ci viene chiesto di ammazzare.

Nella “Lettera ai giudici”, scritta per una denuncia di apologia di reato da parte di ex combattenti, si legge “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.

Precisazioni ancora più decise sono presenti in “L’obbedienza non è più una virtù”.

“Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.

E se voi avete il diritto (…) di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

Anche chi lo ha accusa di cattocomunismo non ha evidentemente letto quanto egli scrive nella famosa “Lettera a Pipetto” in cui traspare la sua opposizione a ogni forma di ideologia totalitaria e la necessità di mantenere sempre uno spirito critico che ci guidi costantemente verso la libertà di pensiero nella ricerca del vero e del bene.

Nella parte finale di tale lettera viene fuori a mio avviso non solo l’alfiere dei diritti di cittadinanza come quelli al lavoro, all’istruzione, alla pace, ma in particolare la dimensione spirituale e pastorale del suo pensiero aperto all’escatologia.

“Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò.

Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”.

Tra i suoi grandi estimatori mi piace ricordare il linguista Tullio De Mauro che difende le analisi sull’inefficienza persistente della scuola italiana incapace di condurre tutti gli studenti a terminare il ciclo dell’obbligo, ma apprezza in particolare la centralità della parola considerata a Barbiana il mezzo fondamentale per acquisire libertà, dignità e capacità di soluzione dei problemi.

Insieme a Paulo Freire ho sempre considerato don Lorenzo Milani uno dei più grandi maestri di pedagogia e didattica con cui mi sono spesso misurato nella mia attività di docente.

A lui dobbiamo anzitutto l’affermazione sulla necessità che la scuola favorisca l’inclusione per non perdere nessuno e sia capace di promuovere non solo formalmente gli alunni da una classe all’altra, ma lo faccia realmente potenziandone le abilità, guidandoli al lavoro di ricerca interdisciplinare e accompagnandoli nell’applicazione concreta delle conoscenze apprese perché essi possano acquisire consapevolezza dei diritti e responsabilità di cittadini liberi impegnandosi alla creazione di una società giusta.

Barbiana ci insegna il valore liberante del linguaggio, ma soprattutto che l’istruzione non è consumazione di un sapere preconfezionato, ma deve fondarsi sulla ricerca e sull’impegno individuale, solidale e collettivo per una solida e rigorosa elaborazione culturale.

“Lettera a una professoressa” non si può certo considerare un trattato di pedagogia nel senso più autentico dei termini, ma presenta davvero quelle che dovrebbero essere le finalità fondamentali di una scuola inclusiva e delinea una metodologia lontana da ogni forma di competizione e orientata invece all’apprendimento cooperativo.

Questa fecondità del pensiero educativo per una scuola capace di maturare in tutti abilità, coscienza critica e responsabilità nella lotta per i diritti è davvero importante in questo momento storico in cui un orientamento scolastico non sempre appropriato, l’elevato importo delle tasse universitarie, gli sbarramenti di accesso a talune facoltà e il costo degli alloggi stanno ricreando forme di una scuola classista.

Solo dopo cinquant’anni finalmente papa Francesco si è portato sulla tomba di questo sacerdote a Barbiana ridando valore ai suoi scritti e dignità alla sua esperienza pastorale.

In una Chiesa che spesso fatica a dialogare con la società credo sia quanto mai utile fare memoria di don Lorenzo Milani che è apparso sempre innamorato del Vangelo e dei sui principi e ha cercato di farne il faro per il suo modo di porsi nella vita, nella Chiesa e nel rapporto con gli altri.

La saggista Fiorella Farinelli ha scritto di lui: “Don Milani appartiene alla schiera dei rari intellettuali che sanno parlare a tutti, atipici, non conformisti, non catalogabili in schieramenti ideologici”.

La sua attualità credo vada ricercata nel coraggio e nella capacità di porre in evidenza i tanti problemi degli esclusi creati dal dominante modello economico neoliberista molti dei quali tuttora sono irrisolti.

Nei suoi scritti, che invito soprattutto i giovani a leggere, questo sacerdote così impegnato nella Chiesa e nella collettività ci ha insegnato che l’unico modo che abbiamo per risolvere le tante questioni sociali aperte e per essere credibili come cristiani è uscire dall’indifferenza e dal lassismo ricercando le soluzioni nel ruolo insopprimibile della politica.

Don Milani sognava un mondo capace di superare le disuguaglianze e di realizzare la giustizia sociale nella libertà, nella fraternità e nella pace.

È il progetto per l’umanità delineato nel messaggio e nella testimonianza di vita di Gesù di Nazareth cui si è sempre ispirato il modo di stare nella società del priore di Barbiana.

Era anche il manifesto della cosiddetta sinistra sociale della quale sembra essersi persa ogni capacità di elaborazione di piattaforme politiche in grado d’incidere concretamente in una realtà in cui aumentano a dismisura le disuguaglianze, non c’è argine alla violenza, al sopruso e alla negazione dei diritti umani mentre l’impegno politico auspicato da don Milani sembra oscurato dall’astensionismo elettorale e dal rifluire nel privato.

Occorre davvero per tutti noi fare proprio il suo motto “I care” ovvero “Mi importa, ho a cuore”.

Padre Ernesto Balducci definiva il priore di Barbiana un “manovale della storia” che si è servito del Vangelo e della Costituzione Italiana per riuscire a tracciare nei suoi scritti e nella sua attività pastorale, culturale e sociale le vie per la liberazione degli oppressi.

Essere attento alle dinamiche collettive e intervenire in esse con l’azione politica credo sia il fondamento della vita di questo sacerdote che si è speso per dare a tutti le stesse opportunità ammonendo sempre che “non si possono fare parti uguali tra disuguali”.

In occasione della presentazione dell’opera omnia di don Milani nell’aprile del 2017 papa Francesco in un videomessaggio ha scritto su di lui delle riflessioni molto acute.

“La sua inquietudine spirituale era alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un “ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati.

Apprendere, conoscere, sapere, parlare con franchezza per difendere i propri diritti erano verbi che don Lorenzo coniugava quotidianamente a partire dalla lettura della Parola di Dio e dalla celebrazione dei Sacramenti.

Il Signore era la luce della vita di don Lorenzo, la stessa che vorrei illuminasse il nostro ricordo di lui”.

Questo riconoscimento fa sicuramente giustizia delle tante incomprensioni avute da uno dei sacerdoti più credibili che la Chiesa abbia avuto in Italia nel corso del Novecento.

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