Pasquale Marinelli, “il sovrano di bronzo”

Pasquale Marinelli con Papa Giovanni Paolo II ad Agnone (Isernia)


Fra i drappi che svolazzano dentro la mia memoria antica e dolce, affiora oggi il profilo di un gentiluomo come pochi, di un intellettuale dallo sguardo pensieroso, di un maestro di “gioconde cose”.

Mi compaiono i lineamenti di Pasquale Marinelli – il “Patriarca delle Campane” – che quest’oggi avrebbe compiuto cento anni. Figlio di progènie antiche, maestro di cose belle. Uomo smagliante che ha fatto della sua vita, un’opera d’arte. “Un uomo dabbene”!

Schiudo il distillato dei ricordi, e sorseggio l’elisir del mio primo incontro con lui a marzo 1954, “Anno Mariano”. Don Mario Vincelli mi porta in Agnone sopra un 615 sferragliante, carico di due campane rotte.  Le consegniamo ad Ettore, soave cointestatario della Fonderia – privo di parola e audioleso – e le fa scaricare nell’atrio. Poi con gesti di affabilità, ci accompagna da Pasquale, suo fratello che, da quel giorno, mi conquisterà con la sua contagiosa freschezza interiore. 

Don Mario gli spiega che la fusione delle due campane spaccate, dovrà generare una sola, nuova, destinata ad eternare il culto a San Gaudenzio, protettore di Guardialfiera, ma anche ad immortalare il dogma della Immacolata Concezione nel Centenario della sua definizione. E che il corrispettivo economico raffigura la soavità munifica di una persona anziana, Caterina “ ‘A Cacchiotta”, donna sola, umile, mutilata di un braccio, venuta dall’America forse per gettare di pieno cuore, nella guantiera di Dio, quanto di speranza e di fede è dentro il suo dono. Pasquale ne è stupito, e verrà a maggio sul campanile, con la campana d’un quintale e mezzo, a presenziare la benedizione impartita dal Vescovo mons. Bernacchia

Da qui, una lunga e bella collana di ordinativi dei quali, forse, fui sentimentalmente ideatore. Don Mario ordinò più tardi la campanella per il castelletto del Cimitero e don Nicolino Tufilli, nei primi anni ’80, ne commissionerà una più rilevante per la chiesa di San Giuseppe. Il dono perenne di Pasquale alla cultura, alla estetica, alla inflessibilità delle sfaccettature bronzee, alla raffinatezza del gusto, sta nel poderoso altorilievo, dedicato a Francesco Jovine. Il monumento è ora abbracciato all’Edificio scolastico di Guardialfiera come una sorta di baluardo pedagogico. Lì sopravvive e parla da educatore e romanziere attraverso un eloquio narrativo sbalzato nel bronzo.

“Vincé, non chiedermi un banale, freddo ed anonimo busto – mi impose Pasquale nel 1990 – occorre originalità.  Ci vuole un Capolavoro!”. E fu così che a Rita Racchi Macchiagodena scintillò il guizzo di modellare un plastico gigantesco, fuso in Agnone, da cui esplode tutta la smania spirituale e umana dello scrittore di Guardialfiera.

Il Prof. Carlo Savini, allora Presidente a Bruxelles dell’Unione Europea dei Critici d’Arte, scoprì nella miscellanea degli incunaboli, la biografia del romanziere: il grappolo di case del villaggio, la decifrazione drammatica di zolle, modulate da effetti plastici, la parafrasi dello sguardo con cui Jovine osserva le “Terre del Sacramento” ed il Ponte Storico sotto un velo di bruma.

C’è l’ampio viso evocatore di don Ciccio, inappagato e malinconico, ma fiducioso nella bellezza e nella ricchezza della sua valle, e nel sogno , sempre pressante, di un miracolo redentivo iscatto e della  Eccoci a Palata, al tempo del mio lavoro alle Poste. La Campana media cede durante il suono a distesa per la messa vespertina dell’Epifania. E verrà Pasquale per una ricognizione; e noi andremo da lui presto per il sacro rito della colata. Nicola Greco, detto “Cipriano”, senza figli. E’ un uomo umile e illetterato. Abita con la moglie, venuta da Roccavivara, in una casupola misera e gelida. Ma è il campione di chi sa scrutare  e scoprire la bellezza, la tristezza, la felicità e le beatitudini che si sperimentano e s’intrecciano nel suono delle campane. E’ colui che trova in quelle voci argentine, la fiducia che consola ed un fremito che gli scivola dentro e che apre il suo spirito alla consolazione. Entra un giorno nel mio ufficio, e si sfoga e mi fa capire il soprannaturale delle sue suggestioni. Mi rivela il suo delirio soffocato da anni.

“Io voglio issare sul campanile del mio paese una campana notevole, più grande di quelle esistenti”. E si parte. Egli viene con me. E’ domenica. Pasquale Marinelli ci accoglie e ci abbraccia nel suo ufficio. Il sogno di Cipriano si realizzerà dopo due mesi. E, ad ottobre la campana di sette quintali, squilla gioiosa sulla chiesa di Santa Maria La Nova a Palata. Cipriano, è avvolto, sul sagrato, da uno strato di grazia. Lo trasfigura e mi fa capire che solo quel giorno, ha assaporato il gusto della felicità. Proprio quella felicità che , qualche anno dopo, penetra e contagia anche “’Za Quencetta da Sorda”. E’ lei a sprigionare un altro canto libero di desiderio e di umiltà e che sgorga ancora a Palata. Un giorno ‘Za Quencette, dalle bancarelle del mercato settimanale, alza lo sguardo su, verso il Campanile nella chiesa di San Rocco. Scorge dalle monofore solo il poco più d’un campanaccio per mucca. “Che indecenza” mi esclamerà l’indomani in ufficio. “Facciamo la Campana”? Sì, e un’altra campana fu.

Pasquale Marinelli nell’anno 2000, percorre la Bifernina; fa una deviazione per Guardialfiera e mi fa dono de “Il tempo dei ricordi”, il suo libro stampato solo da qualche giorno. Gli dissi vagamente “grazie” e scribacchiai, là per là, qualche pensiero che – chissà perché – non pubblicai,  ma che, davvero, mi piace oggi dedicare, devotamente a lui per i suoi Cento anni non compiuti. “Belle e lucide pagine stese durante una overdose di riposo forzato a Napoli. Pasquale Marinelli le scrive lì per compiere una cavalcata a ritroso nel “tempo fra i ricordi”. Per tramandare un groviglio di avventure, di aneddoti, curiosità. Guizzi narranti di gioie e sospiri, tribolazioni e slanci, timori e speranze,… e di molti miracoli di purezza compiuti nella voglia di palesare ed eternare l’incanto per la sua famiglia, e l’amore per  un’arte ultramillenaria: “I Marinelli di Agnone, i sovrani del bronzo” . P

asquale narra quel suo andare per città e per villaggi, a portare e a lasciare la “voce calda e generosa delle sue campane” (F. Jovine) e, dalla sinfonia descrittiva di “campane silenti o del dispetto, di campane ovattate o campane di guerra”, traluce tutta una testimonianza ed un messaggio di ètica e di stile. Escono fuori dai fogli, con il fascino magico e la sonorità della prosa, tocchi e rintocchi di vigori vissuti; fluisce il culto dei valori veri, il respiro della fede ed il peso del tempo proficuo che inesorabilmente scorre e assale. Ritengo che l’irrefrenabile e delizioso Pasquale, il “patriarca delle campane”, non abbia redatto quei ricordi ameni soltanto per colmare il vuoto di un ozio partenopeo. Li ha scritti per confessarsi, per sprigionare smanie ed esuberanze della “terza giovinezza” Li ha scritti – proprio come un tempo annotava Thomas Mann – “per lavarsi il cuore”.

Vincenzo di Sabato

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